10.4.08

Il bersaglio


Sarà un post lungo, questo.
Sappiatelo.
Così se avete qualcosa di urgente da fare potrete leggerlo quando avrete tempo.
Semprechè, naturalmente.
Sarà un post confuso e poco sistematico, come da sottotitolo di questo blog.
In mezzo non escludo possa esserci qualcosa di interessante, ma non garantisco.
...
Qualche tempo fa si è aperta una discussione, partita da questo blog e poi continuata anche sul blog di Silvia Treves, che aveva come scopo il tentativo di definire - necessariamente in modo approssimativo e rudimentale - quando un autore debba ritenere che una storia (racconto, ma anche romanzo), sia terminata.
La discussione è stata ricca ma necessariamente vaga, dal momento che qualsiasi tentativo di definire unilateralmente e definitivamente le regole per concludere un testo è molto arduo, per non dire praticamente impossibile. Questo a meno non ci si guadagni il pane e un ricco companatico lavorando in una scuola di scrittura creativa e si debba, per contratto, fornire regole certe e definitive a gruppi di giovani (paganti), ansiosi di diventare scrittori.
Pardon di pubblicare.
Se non si ha l'esigenza di codificare a tutti i costi, una riflessione rilassata e in termini non troppo stringenti può essere utile, positiva e istruttiva.
Mi sono venuti in mente i termini del problema avendo ripreso in mano in questo periodo un mio romanzo scritto tra il 1994 e il 1997 e più volte rimaneggiato con aggiunte, tagli, spostamenti, introduzione di nuovi personaggi e almeno tre diversi finali.
Il romanzo non è troppo lungo (400.000 caratteri e poco più) ed è inedito. Nelle sue diverse incarnazioni ha partecipato - ovviamente senza vincere - a quattro o cinque concorsi nazionali anche in diverse edizioni. Le bocciature mi han fatto male all'autostima ma, passato qualche mesetto, mi è successo di dover ammettere che effettivamente qualcosa (o parecchio) non funzionava.
Da lì la necessità di rimetterci le mani e riprovare.
Dopo l'ultima bocciatura, comunque, l'avevo lasciato sospeso nel nulla, a dormire su due diversi dischi rigidi. A spingermi a riesumarlo il buon Alex Defilippi: «I racconti di In controtempo sono molto buoni. Ora ci vorrebbe un romanzo»; «Ce l'ho, un romanzo, sul tipo»; «Bene, mandamelo»; «Il tempo di metterlo a posto».
Questa conversazione è avvenuta a settembre dello scorso anno. È da settembre che mi rigiro 'st'accidenti di romanzo continuando a provare la sensazione che ci sia qualcosa che non va. Un po' come un pendolo che per funzionare - funziona, ma a scuoterlo si sente un rumore metallico che non dovrebbe esserci.
Ieri - anzi domenica - l'illuminazione.
Non so in quale altro modo definirla.
Il passaggio logico e di intreccio che spiega tutto, sorto da qualche ignoto angolo del mio cervello e bellamente comparso sulla pagina. Che fornisce al romanzo un verso e un senso precisi e cartesiani.
Un'emozione che chiunque scriva sa che vale oro, la sensazione non tanto di aver fatto centro quanto di aver (finalmente) individuato il bersaglio. Non dico di aver scritto un capolavoro, per carità, ma semplicemente di avere - adesso - un romanzo completo e non un abbozzo.
È la stessa sensazione che si prova, da lettori, quando l'autore riesce a sorprendervi senza giochi di prestigio ma soltanto unendo una serie di punti oscuri fino a disegnare un tracciato diverso e inatteso.
Ripeto: non sto dicendo che ho scritto un caposaldo della letteratura (fantastica), semplicemente mi chiedo da dove venga questa certezza che prima - me ne rendo conto ora - era surretizia e autoconsolatoria.
Soltanto adesso penso di averlo terminato, anche se la «rivelazione» (chiamiamola così) avviene a una trentina di pagine dalla fine, mentre il finale propriamente detto non ho dovuto cambiarlo se non in maniera minima.
Ma la cosa mi ha innescato una serie di domande.
Potrei vivere discretamente anche senza, ma sono fatto così.
È possibile affermare che la fine di un testo è raggiunta quando si è creata una chiara gerarchia di interpretazioni? O quando un testo può essere letto con diverse chiavi e ciascuna di esse non eclissa l'altra? O si deve pensare che il romanzo - o il racconto - siano completi soltanto quando hanno eliminato ogni possibile ambiguità?
Cominciamo col categorizzare.
Può essere utile.
Sto parlando di narrativa fantastica.
Uno dei suoi pregi è quello di poter mescolare le carte anche a metà del gioco.
O introdurne di nuove.
Ma non a pera. Non posso inserire un'astronave in un romanzo fantasy di ambientazione pre-diluvio. Ovvero lo posso fare a patto di modificare completamente il quadro di riferimento. Un po' come quando state fissando un'immagine completa e poi, allargando il campo, scoprite che si trattava di un particolare. È un meccanismo che mi è capitato di utilizzare per il mio racconto per il prossimo ALIA, detto per inciso.
Ma torniamo a bomba.
Un romanzo fantastico implica un certo grado di ambiguità. Fa parte delle «regole del gioco».
Però si deve essere disciplinatissimi, quasi maniacali. Il mondo presentato - fantastico o fantasy non ha importanza - deve essere autosufficiente, autosomigliante e coerente. Non deve sgranare - in breve - se visto da troppo vicino. Fanno in un certo modo eccezione i mondi «figli degeneri» dal nostro, ovvero i mondi nati per sviluppo e distorsione di questo universo fattuale. Le utopie, le distopie e le ucronie, in breve.
In questo genere di romanzi l'autosomiglianza e la coerenza sono altrettanto (se non di più) fondamentali mentre l'autosufficienza diventa relativa. Il confronto con il nostro mondo, una certa calcolata (e terrificante) confusione con questo fanno parte del gioco. Esempi principe «1984» di George Orwell, «La svastica sul sole» di P. K. Dick e più di recente «Il complotto contro l'America» di Philip Roth. Romanzi «politici», vicini al Comte Philosophique settecentesco.
È ovvio - lo dico per chiarezza - che qualsiasi testo fantastico è autosufficiente in senso puramente relativo. Se lo fosse davvero potreste andarci ad abitare. Qualunque cosa accada in un romanzo - fantastico o meno - viene filtrata e interpretata dal nostro cervello in base alle categorie utilizzate nel giudicare la vita reale. La frattura nasce quando posso scrivere: «Daniele cenò e andò a dormire» e rimango in un ambito familiare, ma posso anche scrivere: «Daniele cenò in compagnia del suo amico Klog il boldhovin e dopo uscirono a far bisboccia». Chi o che diavolo è un «Klog il boldhovin?» [1] chiede il lettore. Appunto. Siamo nel fantastico e chi ne ha voglia può continuare a leggere le avventure di Daniele e del suo amico, aspettandosi logicamente che la mattina dopo Daniele non andrà a lavorare al call-center copulando con la sua compagna d'ufficio durante la pausa pranzo.
Fine della digressione.
Parlavo di un grado accettabile di ambiguità nella Chiusura di un romanzo.
Non il Finale (importante, questa) ma proprio la Chiusura. Quest'ultima può coincidere con il Finale ma non è necessario e obbligatorio.
Bene. Mentre il Finale può essere «aperto», ovvero può preludere a ulteriori sviluppi, la Chiusura deve essere definitiva.
Questo è il motivo per il quale le precedenti stesure del mio romanzo non funzionavano.
Ed è inutile fare i furbi. Accoppare i protagonisti per «chiudere» il Finale senza aver tirato i fili in Chiusura- se non tutti almeno i principali - è un'operazione che disturba profondamente il lettore ed è un po' la coscienza sporca dello scrittore.
Io, comunque, non ho accoppato i miei protagonisti.
Per ritornare alle tre ipotesi previste prima:
1) È possibile affermare che la fine di un testo è raggiunta quando si è creata una chiara gerarchia di interpretazioni? [Ipotesi gerarchica]
2) O quando un testo può essere letto con diverse chiavi e ciascuna di esse non eclissa l'altra? [Ipotesi paritaria].
3) O si deve pensare che il romanzo - o il racconto - siano completi soltanto quando hanno eliminato ogni possibile ambiguità? [Ipotesi unitaria]
Cominciamo con l'affermare che la terza [ipotesi unitaria] può essere soddisfacente, anzi necessaria per un certo genere di giallo. Un giallo, non un noir, aggiungiamo. Dato un enigma si tratta di venirne a capo senza nessuna ombra né sull'innocenza né sulla colpevolezza. Tantomeno sullo scioglimento dell'enigma. Tutto si spiega e si va a dormire tranquilli.
La seconda [ipotesi paritaria] riguarda, direi, i romanzi e i racconti «metaforici», dove una vicenda, un periodo storico o un personaggio sono metafora del qui e ora. «Q» (ma anche «Il nome della Rosa») rappresentano in metafora taluni aspetti delle principali ideologie del XX secolo. In entrambi i romanzi si coglie nettamente l'elemento di polemica - o di identificazione - con lo schierarsi politico, la lotta armata, la polemica ideologica, l'oppressione intellettuale e la resistenza. Si possono leggere avendo in primo piano il plot oppure tenendo presente il loro valore metaforico. O, ancora, il loro significato in rapporto alla maturazione o al fallimento personale dei personaggi.
Detto per inciso non sono poi pochi i romanzi metaforici in fantascienza.
Ne cito due, i primi che mi vengono in mente: «Vertice di Immortali» di Robert Silverberg e «Un'ambigua utopia» di U.K. Le Guin.
Secondo Stefano Benni la sf è IL genere metaforico per eccellenza. Non sono d'accordo, ma non è comunque un'affermazione da buttare. A differenza di una non piccola parte della sua produzione. Soprattutto quando, come in «Terra!» clona Douglas Adams e poi butta tutto in vacca con un epilogo degno di Peter Kolosimo o di Erich Von Däniken.
L'ipotesi gerachica, ora.
Mi piace di più.
Anche perché il giallo a incastro dopo un po' mi annoia (non sono abbastanza attento e/o intelligente per sciogliere il mistero, così mi sento frustrato e ho la tentazione di buttare il libro dalla finestra) e il romanzo metaforico alla lunga m'infastidisce perché non mi piace essere tirato di qua o di là in una discussione, sia pure - appunto - metaforica.
Mi interessa, invece, il romanzo dove non è facile - o è impossibile - prendere posizione e ciò che accade ha una sua logica interna che non completamente comprensibile, se non a grandi linee, dal lettore. «Comprensibile» in questo caso significa «esplicabile». Il che non significa optare sempre e comunque per il fantastico. Vi sembra sempre perfettamente esplicabile il mondo, la nostra realtà?
Pensate al concetto di «limite» in matematica. Mi piacciono i racconti e romanzi che instacabilmente si approssimano al limite ma non possono raggiungerlo. Nello spazio compreso tra la loro posizione e il limite della perfetta comprensibilità (che non possono raggiungere) vivono tutte le possibili interpretazioni e ricostruzioni.
Un esempio?
Cribbio.
L'ultimo romanzo di Murakami Haruki, «Kafka sulla spiaggia», Einaudi.
Murakami, non a caso uno degli scrittori che prediligo, è un asso nel creare storie miracolosamente in equilibrio tra l'assurdo e il reale. Certo, non sempre l'equilibrio è perfetto e si ha talvolta la sensazione che anche il buon Haruki stia menando il can per l'aia, ma in genere è un maestro nel creare aspettative, adombrare sviluppi, proiettare ombre e suggerire minacce trovando infine scioglimenti che acquietano il lettore senza essere pienamente esplicativi. Una tecnica di spostamento progressivo che, per l'appunto, può ricordare il discorso sui limiti matematici.
È abbastanza chiaro?
Ci sono altri autori di questo genere?
Fuori dal seminato del fantastico c'è Leonardo Sciascia.
Come «Leonardo Sciascia»?
Ma scherziamo?
Un autore tanto tenacemente realistico da risultare talvolta quasi iperreale.
Ma Sciascia è uno che riesce a rappresentare l'ambiguità profonda e inerstirpabile della realtà, capace di scovare l'enigmatico e l'inesplicabile anche in territori apparentemente molto lontani dalla narrativa come la politica e l'economia.
Qualunque cosa raccontata da Sciascia perde la certezza - ovvero la banalità - per acquisire i contorni non del tutto definibili dell'evento unico. Sciascia fa un uso accortissimo del dubbio, ne fa un elemento centrale del suo narrare. E il dubbio (... E se?...) è un motore narrativo di formidabile potenza ed efficacia.
Il dubbio è la base dell'intelligenza.
...
E adesso arriviamo al bersaglio.
Il problema è che se il romanzo o il racconto possono e devono essere non perfettamente esplicabili per il lettore, lo DEVONO essere per l'autore, anche se non completamente almeno a grandi linee. L'autore deve essere cosciente perlomeno degli enti che maneggia e delle suggestioni che crea ed evocarle con attenzione.
Se risveglio nel lettore il timore per l'artificiale e il tecnologico sfuggito al controllo umano devo, prima di tutto, esserne cosciente. Quindi devo creare un punto A dove questo timore prende corpo, disporre un punto B nel quale questa minaccia si dispiega e raggiungere un punto C di equilibrio nel quale tutti i possibili sviluppi sono aperti e possibili.
Probabilmente ciò che mi è accaduto è stato l'aver ulteriormente preso coscienza delle possibilità e delle implicazioni del romanzo. Ho soltanto salito un gradino, nulla di più, ma un gradino importante.
Sono pronto a giurare che si tratti di un processo e non di un fenomeno, tuttavia. Il che vuol dire che ci dev'essere stata una parte della mia mente impegnata giorno e notte a rigirarsi il romanzo de settembre in poi.
Non posso trasformare il tutto in una ricetta e regalarla, comunque. Nemmeno venderla. E non devo produrre ricette a comando visto che nessuno mi paga.
Se qualcuno pensa che un romanzo sia materia facile da maneggiare fino alle sue contorte e complicate implicazioni è probabilmente molto più bravo di me.
Oppure non sa di cosa parla.

[1] Klog il Boldhovin è una creatura di fantasia anche se non l'ammetterebbe mai. Nella fattispecie si tratta di: «una strana creatura di bassa statura, dalle grandi pupille verde foglia, il volto e le mani dalle dita lunghe coperti da una soffice peluria gigia, le labbra nere ed i piedi molto lunghi [...] nata dal ventre di velluto e seta di una gwellyniuin e dall’arnese infaticabile di un erbano».
Ma questa è tutta un'altra storia...

5 commenti:

Fran ha detto...

Non ho la competenza necessaria per commentare nel dettaglio, a parte essere contenta per te, per aver trovato la chiave di lettura del tuo romanzo.

Però mi rendo conto che al giorno d'oggi è molto più difficile scrivere rispetto a solo un 50 anni fa, quando si era visto e letto molto meno. Come nella discussione sulla musica ci riconosciamo ancora amanti dei musicisti che adoravamo da teenager, i classici che ci sembravano tali anni fa ci perseguitano.
Quello che sto cercando di dire senza riuscirci, è che scrivere qualcosa di originale nel ventunesimo secolo è senz'altro più difficile nel secolo precedente: di esperimenti (ben e mal riusciti) ne sono stati fatti a montagne.
La domanda sorge spontanea: come può esistere una "scuola di buona scrittura" ai giorni nostri? Qualche ricetta da seguire?
Anche se ti pagassero per offrirla, non credo che ce ne sia una, ecco.

Massimo Citi ha detto...

È vero che molte cose sono già state dette e scritte ma, in compenso, il numero di potenziali lettori (e di potenziali scrittori) è cresciuto. Pensa, anche soltanto qui in Italia, ai neolettori figli di immigrati, provenienti da culture anche molto diverse e ai risultati di un incontro tra la nostra lingua e una visione del mondo diversa e non provinciale.
Anche per i forti lettori (+ di dodici libri all'anno) le sorprese sono potenzialmente infinite. È vero che tutte le vicende - dai tempi dei sumeri - ruotano intorno a due temi essenziali: Amore e Morte e che lo sfondo, secondo Tolstoi e Calvino, deve tenere conto di due elementi essenziali e irrinunciabili: Storia e Natura, ma anche così mi pare che ce sia più a sufficienza...
Di inimitabile e costantemente nuovo c'è, secondo me, l'occhio di chi guarda, ovvero lo sguardo. Questo è uno dei motivi per i quali penso che si possano agevolmente insegnare le regole della scrittura e persino risvegliare in qualcuno la capacità di osservare il mondo con altri occhi, ma credo sia virtualmente impossibile «insegnare a scrivere».
Si può fungere da «agenzia di collocamento per scrittori», questo sì. Il buon Paolo Giordano, quello de «La solitudine dei numeri primi» viene dalla scuderia della Holden di Baricco & Soci, tanto per dire.
E il grosso rischio, in questo caso, è quello di avere un vivaio di autori che scrivono suppergiù le stesse cose con stili canonizzati e riproducibili. Scrittori replicanti, insomma. Ma è questo un fenomeno che, anche senza particolari progetti, è accaduto più volte sia in letteratura che nel cinema. Molte volte si è detto e scritto che il tale stile o la tale letteratura erano il meglio del meglio. Poi tutto è cambiato. E cambierà ancora. Cambierà sempre.

Fran ha detto...

Anche se non sono riuscita a formulare la domanda, la risposta è proprio bella e vera: ci sarà sempre qualcosa da dire e sempre qualcuno che vorrà leggerlo.

Io cercavo di dire che non può esserci un "modo giusto" di fare le cose, una ricetta assoluta. Non dopo centinaia di anni ormai che l'umanità tenta di sperimentare e provare altro, e tutto quello che si è provato (ed è rimasto nella memoria di qualcuno) è in qualche modo giusto.
O no?

Davide Mana ha detto...

Credo che certi ingredienti e certe ricette rimangano alla base della narrativa - che in fondo è ciò che ci permette di continuare ad apprezzare l'Odissea o l'Epopea di Gilgamesh (o anche solo Cuore).

Poi, ogni generazione, aggiunge ingredienti e interpretazioni - il gusto di chi scrive, di chi legge...
Certe vecchie ricette cadono in disuso, o si trasformano in un piacere esotico per pochi cultori...

C'è un forte legame fra narrativa e cucina...

Massimo Citi ha detto...

C'è un piacere particolare nel rileggere testi che ora giudichiamo ingenui e un piacere ancora maggiore nello scoprire che, anche parlando di narrativa «minore» nonostante l'italiano desueto e la mancanza di scuole di scrittura creativa, il racconto o il romanzo colgono ancora il bersaglio provocando inquietudine, paura, gioia, soddisfazione, partecipazione e timore.
A conferma che non esistono ricette che possono essere vendute o insegnate a pagamento. Al massimo strumenti che è bene saper utilizzare.