29.7.08

Riduzione a Icona

Sono in ferie, quindi almeno per un po' non scriverò sul blog.
In realtà sono in ferie già da una settimana o giù di lì, ma il problema di avere un'attività in proprio è che non si è mai realmente in ferie. C'è il fornitore che ti cerca, bisogna passare in banca, bisogna rispondere a questo e a quello, produrre scartoffie a vantaggio del fisco eccetera. Quando tutti questi enti saranno finalmente chiusi potrò anche concentrarmi soltanto sulle mie ferie. Più o meno come riuscire ad addormentarsi mezz'ora prima che suoni la sveglia...
In compenso, giusto perché non vi dimentichiate troppo presto di me, ho messo in piedi una cosuccia nuova in complicità con Silvia Treves (S_3ves). Si tratta di un romanzo di SF che abbiamo scritto a quattro mani e che pubblicheremo a puntate, secondo la nobile tradizione del feuilleton, su un blog che abbiamo aperto a bella posta.
Romanzo e blog hanno lo stesso nome: Riduzione a icona.
Quanto ai motivi di questa insana e impulsiva decisione vi rimando all'intro che appare sul blog di RaI. In questa sede basterà dire che far girare un romanzo in forma semiclandestina in attesa di essere finalmente «scoperti» da qualche abile e talentoso editor (MA CE NE SONO ANCORA?) è un'operazione patetica, soprattutto se il romanzo è di fantascienza. E pubblicare con CS_libri in tempi di magra come questi non è una grande idea. Oltretutto è sempre possibile che il romanzo valga molto meno di quanto crediamo io e Silvia (che non casualmente è anche mia moglie), ma l'unico modo che abbiamo per saperlo, in fondo, è quello di farlo leggere.
Quindi...
Beh, buona lettura e a rileggerci (anche) su queste pagine.

22.7.08

Una non-recensione a un non-libro

Dai lettori che hanno scaricato - del tutto o in parte - i materiali narrativi che ho pubblicato in rete nel mio blog ho ricevuto diversi commenti. Qualcuno veloce e sintetico, altri più meditati e puntuali, con suggerimenti, rilievi, consigli, osservazioni e critiche. In sostanza la prima fase dell'operazione di autopubblicazione si è rivelata molto più feconda e ricca di quanto avrei onestamente ritenuto possibile. Ne approfitto per ringraziare tutti coloro che hanno dedicato tempo e pensieri alle mie cose. In particolare ringrazio chi mi ha incoraggiato a persistere e a dare uno sbocco in termini di pubblicazione a qualcuno dei testi ancora inediti pubblicati on line.
Discorso complesso anche e soprattutto perché l'unico editore disponibile a pubblicare un mio testo è CS_libri. Dal momento che autore ed editore nel mio caso coincidono parrebbe una partita facile ma non è così. L'editore, infatti, pretende che un romanzo non sia un «fungo» letterario che spunta all'improvviso e dove gli pare , ma che faccia parte di un progetto, di una collana, di un disegno più ampio. E CS_libri, per dire, NON HA (e non so se avrà mai) una collana di sf... Pensare ad altri editori, d'altra parte - vista anche l'esperienza fatta con Urania - mi sembra quantomeno poco realistico o prematuro.
Quindi?
Quindi Ultimo Spettacolo, il romanzo inedito che ho inserito nello spazio narrativo del blog resterà a lungo a disposizione degli eventuali lettori. Non ho l'età per giocare a fare il «giovane esordiente» e non essendo ancora ridotto alla fame non ho l'assoluta necessità di scrivere un sexy-noir-thriller con per protagonista un commissario buongustaio ma infelice, che sarebbe sicuramente meglio accolto dei miei insani e faticosi testi, troppo ricchi di assurdità e di personaggi. Le molte esperienze fatte mi hanno convinto che ciò che scrivo difficilmente incontra l'interesse di editori sani di mente e giustamente preoccupati per il loro portafoglio ma questo mi rende anche assolutamente libero di pubblicare ciò che mi pare e di cercare autonomamente i miei lettori.
Una consolazione? Può darsi, ma, dati gli esiti avuti finora, una buona consolazione.
...
Ciò che segue è un commento - anzi una vera «recensione» - a Ultimo Spettacolo inviatami da Piotr/Piero, collaboratore della rivista LN-LibriNuovi e membro del terzetto dei Rudi Mathematici. Ai più attenti non sfuggirà la circostanza che il primo libro dei suddetti Rudi Mathematici è stato pubblicato proprio da CS_libri, società della quale sono indiscutibilmente il presidente e responsabile. Con Piotr abbiamo riflettuto un po' sulla circostanza e abbiamo scandagliato i numerosi aspetti bui ed equivoci dell'eventuale pubblicazione della sua recensione (o non-recensione, come lui la definisce). La nostra conclusione è stata che, viste le quantità pateticamente omeopatiche di denaro e potere che CS_libri è in grado di veicolare, potevamo anche correre il rischio di apparire loschi figuri intenti a praticare qualche sordido scambio.
La realtà, molto più semplice e quindi scandalosa, è che a me piace ciò che scrivono Piotr e gli altri Rudi (anche quando questo non mi riguarda) e che quindi sono ben felice di pubblicarli, mentre a Piotr piace ciò che scrivo io.
Semplice e diretto.
Buona lettura.

Giuro, non ci serve niente.
Abbiamo già aspirapolvere, battitappeto, cosmetici, olio d’oliva,
Torri di Guardia, Lotte Comuniste e siamo già abbastanza svegli così. Grazie.


Per molte ragioni, non ritroverete la frase in corsivo scritta su nessun libro. Per molte ragioni, ma – come direbbe Snoopy nei panni del Grande Bracchetto – tutte ragioni sbagliate.
Siccome non è altro che una frase dispersa su un non-libro di quasi trecento non-pagine, ci possiamo permettere una sua analisi dettagliata, da usare come chiave di volta per la lettura (non-lettura?) di tutto il non-libro. Tanto per cominciare, è scritta in italiano; non è cosa di poca importanza. Questo non per revanscismi maldestri da Accademia della Crusca: no, è solo che una frase del genere, di solito, se la si trova scritta in italiano è perché è stata tradotta da altre lingue. Invece questa no, è veramente, originalmente, categoricamente frase italiana. E questo suona strano, no? Vi vengono in mente autori italiani che possono scrivere una frase così? No, non vengono. Visto?
Occorre proprio capire meglio.
Cosa c’è di strano, in questa frase? Possibile non sia estraibile la peculiarità del suo contenuto? In fondo, è poco più di un elenco, e allora sarà facile elencare.
Aspirapolvere, battitappeto (…) Lo sappiamo, ce ne sono ancora, in giro. Girano di casa in casa, di casalinga in casalinga, forse anche di centro sociale occupato in centro sociale occupato. Azzimati, quasi belli, spesso giovani - ma non sempre. Quelli della Vorkwerk Folletto. O forse è meglio dire quelli del Vorkwerk Folletto; o magari solo quelli del Folletto. Arrivano, suonano, entrano, ti presentano l’aspirapolvere come fosse una persona. Mezz’ora per spiegarlo, un’ora e mezzo per la dimostrazione: interi condomini aspettano la visita di quelli del Folletto per avere fatte senza fatica le pulizie di primavera. Spiegano, dimostrano, puliscono, se ne vanno. L’aspirapolvere costa milioni di lire, migliaia di Euro, e qualcuno ne venderanno pure, tra una dimostrazione e l’altra, visto che continuano ancora a girare di porta in porta con il battitappeto,la scopa elettrica, i trecentododici accessori. Quelli del Folletto. Girano ancora, sì: forse ovunque, non solo in Italia: in fondo si chiamano vorkwerk, mica ruscailrusco. Ma almeno in Italia sì, girano di certo.
(..) cosmetici (…) La Avon, come no. Profumi e rossetti, tra studentesse anni sessanta che chiamavano mini le gonne che arrivavano mezzo centimetro sopra il ginocchio, tra madri operaie e contadine che non capivano il contenuto di quasi nessuna bottiglietta di latte detergente, idratante, struccante. Loro, le madri, solo col rossetto; uno solo, e rosso-rosso, rosso forte e deciso, che sennò che senso aveva? E le loro figlie lì, col profumo nella bottiglietta a forma di piramide egizia, tra “adesso lo compro” e “no non lo compro”, fino a “magari lo compro, magari faccio anche io quella che va coll’Avon porta a porta, e se ne vendo dieci magari me ne posso comprare uno”. E una nuova presentatrice era pronta a galoppare con la borsa piena di profumi a forma di piramide.
(..) olio d’oliva (…) Pugliese, di solito. Forte, più verde che giallo, in latte grosse. Nelle città del Nord che traboccavano d’operai del Sud, operai che di giorno fanno i cruscotti delle seicento e la sera vogliono l’insalata coi sanmarzano rossi e sugosi. E se i sanmarzano, dopo mille chilometri a bordo TIR, sono rossi ma non sugosi, anzi un po’ molli e sciapi, che almeno l’olio, almeno quello, sia spesso e forte; e verde. Eccole, le latte d’olio dal Sud, figli d’ulivi grassi e piatti, dispersi su pianure giallastre battute dal sole. Altro che gli ulivi liguri, di confine, limitanei e scazzati come i legionari romani sulle frontiere del Reno o del Danubio. Altro che i piantoni toscani o umbri, alberi di collina, sparpagliati e disordinati come marines durante un’esplorazione nel delta del Mekong. No, qui ci sono le olive grosse e grasse di Puglia, c’è olio denso e forte di sole, come il vino sovraccarico di quelle latitudini. Dal camioncino che si è fatto tutto lo stivale pieno di latte da cinque chili – chili, non litri, che per l’olio è diverso – è salito il venditore d’olio, fino al pianerottoolo. Drin, chi è, è arrivato l’olio, ommadonna, adessocomefacciamo, comelopaghiamo, conquellochecosta.
(..) Torri di Guardia, Lotte Comuniste (…) perché anche la rivoluzione minoritaria passa porta a porta. Prima che Bruno Vespa sputtanasse definitivamente il luogo immaginario e reale, alle porte dei poveri – le uniche accessibili ai questuanti d’ogni ordine e grado – passavano i rivoluzionari. Teologici o marxisti, ma sempre contro il mainstream cattolico e partitocomunistico. Sì, sono testimone e figlio di Geova, ah ah che ridere no, non Genova, proprio Geova, lo so fa ridere, ma non si dovrebbe, è il nome di Dio. E noi pensiamo che questa rivista ti spieghi perché io busso alla tua porta, forse anche perché tu apri in canottiera, barba lunga, e forse anche macchie d’unto (olio pugliese?) sul quel cotone che una volta era bianco. Perché io ti annuncio la salvezza (brzap) io ti porto la rivoluzione, compagno. Quello che dicono alla televisione, ma lo senti anche tu, no? E perché non raccontano di questi 33 minatori iugoslavi morti in miniera? Poginula 33 rudara, altro che Donat-Cattin, cazzo, e dacci un contributo, sottoscrivi e (brzap) e credi sia facile, venire tutti i sabati mattina ad annunciare il Signore, e quel che diceva nostro padre Russell? No, chi è ‘sto Bertrand, no, Charles Taze, nostro fondatore, ed è grazie a lui che abbiamo riscoperto il vero Cristo, quello che lo testimonia davvero, come quando Lui era tra noi e (brzap) e tanto lo sai, compagno, che finché rimani chiuso dentro la tua canottiera unta d’olio e sporca di sanmarzano non cambierà un accidente. Prendi questo giornale, leggi (brzap) prendi questo giornale, leggi (brzap) vieni in cellula, domani sera (brzap) vieni nella nostra chiesa, domani sera, (brzap) fa’ un’offerta, associati, dammi il telefono, ritornerò ritornerò ritornerò (brzap) (brzap) (brzap) (brzap) (brzap) (brzap).
(…) e siamo già abbastanza svegli così.(…) Perché non c’era solo la Torre di Guardia, c’era “Svegliatevi!”, ed irritava di più. Con l’imperativo plurale e il punto esclamativo, e la sicurezza fondamentalista e talebana ante-litteram. E svegliavano davvero, sia gli svegli che i reprobi del Turno C, quelli in fabbrica dalle dieci di sera alle sei di mattina. E alle nove di mattina loro, con gli “Svegliatevi!” sventolati sotto gli occhi: occhi gonfi dell’acciaio incandescente delle ferriere, occhi gonfi di sonno, che non avevano per niente voglia di svegliarsi, specie se dovevano farlo solo per prepararsi all’altro sonno (quello grande di Marlowe? No, quello eterno di Geova). Ma non volavano cazzotti nè vaffanculo, no, quasi mai. Solo tanti “No, grazie”, appunto; oppure solo “grazie”. Come dice la parola finale della frase in esame. Appunto.
(…)Grazie.
BRAZP!
Grazie, dice. Grazie di che, Citimax? Di scrivere un non-libro? Un libro non pubblicabile, senza futuro, un non-libro con vere istruzioni dell’uso, anzi del non-uso? Fosse un libro, scriverei una recensione. La darei al mio editore, che pubblica una rivista di recensioni. Potrebbe decidere di pubblicarla.
Se fosse un libro.
Ma tu no, tu non scrivi un libro, e io non posso scrivere una recensione. E la non-recensione può, almeno, uscire fuori dalle righe e dalle regole, cambiare persona, dalla terza impersonale alla seconda personale e aggressiva, perché tanto le non-recensioni non si pubblicano, tali e quali ai non-libri.
I libri di Adams non sono fantascienza. O forse sono la fantascienza perfetta, quella che non si giustifica, quella che percuote le parole e le idee, e fa sostenere tutto l’impianto narrativo da argomentazioni quali due missili termonucleari che si trasformano in un capodoglio e in un vaso di petunie (o peonie, forse). Quei libri che sono condannati ad essere profondi perché esplicitamente dichiarati leggeri, vacui, tutt’altro che profondi. Si leggono e si possono leggere, si ride e si può ridere, si può far finta di non accorgersi che, ogni due per tre, ci si trovano, travestite da battute, argomentazioni tragiche nella loro precisa immanenza critica. Proprio come se io scrivessi, qui ed ora, in una non-recensione, la ridicola accoppiata di termini “immanenza critica”. Nell’esercizio di scrivere come Adams, la cosa facile, quella che sanno fare tutti, è copiare i missili termonucleari che si trasformano in vasi di fiori; la cosa difficile è scrivere come Adams a prescindere dai missili che si trasformano in vasi di fiori. Qualcuno ci ha provato, a quanto ne so. E copiavano la fantascienza, senza arrivare a sfiorare il vero Adams.
Poi, arriva un Citimax. Scrive Ultimo Spettacolo, che non è una imitazione di Douglas Adams. O meglio, lo è, eccome: lo è nella maniera di raccontare, nella modulazione degli eventi apparentemente sconnessi, nella articolazione dei personaggi persi dentro le loro caratteristiche, che indossano disciplinatamente senza crederci davvero, come ogni perfetto inglese di Islington. Avrebbe potuto parlare della ricostruzione del Globe, questo Ultimo Spettacolo. Avrebbe potuto narrare le gesta d’un nautilo d’acqua dolce. Poteva essere un saggio sul fado portoghese, e sarebbe stato sempre un libro di Citimax: un libro che mostrava di aver saputo estrarre perfettamente quel che c’era da estrarre da DNA. Il DNA di DNA, tanto peer fare facili battute. Gli piaceva un sacco, ad Adams, dire di essere nato/scoperto nel 1952, a Cambridge, e che le sue iniziali erano DNA.
Si poteva parlare di San Salvario, volendo: scritto come è stato scritto, questo non-libro poteva magicamente essere applicato su qualsiasi forma narrativa, mantenendo sempre la sua identità e perfino la sua dichiarata dipendenza adamsiana. Mirella è una donna di Citimax, una donna di Adams, e sarebbe rimasta sé stessa anche fuori dall’astronave. E E. ha le caratteristiche di Arthur Philip Dent, ma non è Arthur Philip Dent, e poteva anche rimanere E., splendidamente abbonato a Macrosesso e deliziosamente imbranato anche sul molo di Loano, oltre che in mezzo alla Galassia.
Mancano, coloro che sanno scrivere come Adams. Quelli che fanno ridere senza ridere, quelli che demoliscono un personaggio grazie a un particolare, quelli talmente abituati a prendere in giro sé stessi che non fanno fatica a prendere in giro il mondo. Ce ne abbiamo uno qua, il Citimax, e ci fa quest’errore. Quest’errore di scrivere un non-libro invece d’un libro.
Citimax, butta via le istruzioni per l’uso.
Sii disonesto, Citimax. Non ricordare a chi legge che stai facendo un omaggio. Cambia la trama quel tanto che basta a renderla irriconoscibile. Togli ogni traccia di Trillian in Mirella, lasciane nessuna di Arthur in E., rendi il robot schizofrenico invece che paranoico. O non fare niente di queste cose. Abbandona la tristezza degli ambienti troppo cupi, troppo noir di alcuni tuoi racconti tormentati. Acquista coscienza che puoi scrivere qualunque, ovunque, quantunque. Hai nella penna molto più di quello che credi. Più ti leggo, più penso che il tuo problema essenziale sia la timidezza.
Mi sono molto divertito, nel leggere US. All’inizio, ero a caccia dei parallelismi: poi li ho lasciati, e ho cominciato a cercare le assonanze di stile. Poi mi sono ritrovato a fatica nel ricercare la trama, che è proprio quello che di solito mi succede quanto un libro mi piace a prescindere da ciò che racconta. E mi sono allora reso conto che era in peccato, che avessi scritto un omaggio: perché così US farà più fatica a partire. Chi lo legge e conosce DNA, capirà i riferimenti. Chi non lo conosce, leggerà le tue istruzioni e cercherà di capire cosa ci sia al di fuori del tuo libro.
Ma è sufficiente quello che c’è dentro.
Sai, tutto sommato, al momento, credo mi piaccia ancora un po’ più Douglas Noel Adams di Massimo Citimax Citi. Però è sorprendente che il Citi riesca a scrivere così bene nello stile di Adams. Sono quasi certo che Adams non saprebbe fare la stessa cosa nello stile di Citi. Se ho ragione, è necessario che Citi perda le ultime timidezze e scriva il suo autonomo e sfacciato romanzo. Senza debiti né citazioni, senza paura di trasgredire né trascendere.
Se devo inventarmi una metafora, è come se ogni storia fosse un frutto. Con buccia, polpa, succo, aspetto, colore, luce. Un frutto disonesto è come le grosse arance rugose, belle a vedersi e toccarsi, che dentro non hanno che spicchi rinsecchiti privi perfino di semi, sterili. Un frutto onesto è un’albicocca sull’albero: dalla forma den definita, facile ad aprirsi, saporita, con il nocciolo ben separato e bello esso stesso. Altri frutti sono meno spudorati: si nascondono, non palesano il contenuto. Una nocciola, una noce è difficile da aprire, anche se poi è estremamente buono ed energetico il frutto.
Tu, sembri a volte una noce di cocco. Duro il frutto stesso, dentro scorza ancora più dura. Nascosto sulla cima di palme altissime, con pochissima voglia di farsi scoprire e aprire. Poi, insistendo e smadonnando, la noce si riesce ad aprirla, infine. E dentro c’è da mangiare e anche da bere: cosa insolita, per un frutto.
Ultimo Spettacolo mostra che puoi scrivere quello che vuoi. Non solo fantascienza, non solo omaggi a grandi scrittori, non solo fantastico. La frase che ho giocato ad analizzare mi ha tenuto allegro per un intero pomeriggio, per questo ho deciso di giocare con la non-recensione del non-libro. Ma le considerazioni scritte da me su quella singola frase è da essa che sono scaturite, che tu lo abbia voluto o meno. Che io lo abbia voluto o meno.
Poiché quella frase è tutto meno che il cuore del libro; poiché è solo una onesta rappresentante delle 270 pagine di Ultimo Spettacolo, io credo che Ultimo Spettacolo potrebbe davvero decidersi a perdere il “non-“ e a diventare un libro. O potrebbe servire anche solo a mostrare a te che puoi scrivere qualsiasi libro.

20.7.08

Il grande mare dei libri morti (da dove arrivano i libri? Parte 4)

Titolo ricalcato da quello di un romanzo di Nakagami Kenji. Parrà drammatico ma è perché vuole esserlo. Nonostante faccia questo lavoro da alcuni decenni non riesco mai ad abituarmi all'idea della resa, pratica che, viceversa, non credo sconvolga più che tanto gli edicolanti che hanno con essa un rapporto quotidiano.
Ma cerchiamo di andare con ordine.
Il libro in quanto prodotto ha una peculiarità che condivide con i periodici: il diritto di resa. In sostanza tutto ciò che il libraio acquista può essere, una volta trascorso un certo lasso di tempo, restituito al distributore e l'importo di tale resa (accredito) essere defalcato dai nuovi acquisti. O, più frequentemente vista la perenne scarsezza di liquidità del settore, dai vecchi. Teoricamente il libraio cerca di vendere quanto ricevuto (se l'ha ordinato, beninteso) per un tempo che va dai 120 ai 180 gg. Esaurito questo tempo richiede l'autorizzazione a rendere, rispedisce indietro gli invenduti (operazione che comunque pesa per un 1 - 1,50% sull'acquistato netto e abbassa ulteriormente il margine lordo) e generalmente entro 60-90 gg (nell'ipotesi migliore) riceve il suo accredito, sia pure talvolta decurtato da qualche errore nel ricarico dei titoli fatto dal distributore. Come si può immaginare, infatti, il personale adibito a tale funzione non è esattamente il più preparato e competente. I famosi trimestrali pakistani di un altro post...
Questo teoricamente.
All'atto pratico gli eccessi nella produzione editoriale e le difficoltà del libraio nel destreggiarsi in cedole editoriali talvolta composte da 600 o 700 titoli provocano un'eccessiva esposizione finanziaria e uno squilibrio nello stock. Quindi la resa diventa uno strumento brutale ma efficace di sollievo per l'attività sovraesposta. Normale che nella resa, assemblata talvolta un po' frettolosamente, vadano a finire libri usciti anche soltanto da un paio di mesi e libri - soprattutto di saggistica - che non sono nati per un arco di tempo d'esposizione troppo breve. D'altro canto l'eccesso di esposizione delle librerie è un polmone finanziario surretizio per l'attività editoriale.
I libri si degradano, in sostanza, da oggetti dell'attività commerciale a ostaggi dell'insufficiente liquidità dell'intero comparto. E scompaiono dalle librerie troppo velocemente finendo nel «grande mare dei libri morti».
Se si tiene conto che le grandi catene librarie e la GDO hanno tempi di resa predefiniti e più rapidi di quelli delle librerie indipendenti ci si rende conto che il tempo reale di permanenza di un titolo presso una libreria non supera quasi mai i 120 gg. Ancora peggiore la sorte dei libri usciti nei mesi di ottobre e novembre destinati massicciamente alla resa nel mese di gennaio per alleviare il peso dell'esposizione della libreria dopo la sbornia di uscite natalizie.
Il tema delle rese, anche affrontato rapidamente e per sommi capi come in questo post, è comunque evidentemente centrale nella produzione e nella commercializzazione del libro. Sul diritto/dovere di praticare la poco nobile arte della resa dell'invenduto si scontrano da decenni editori e distributori, i primi giustamente preoccupati dai tempi di permanenza troppo brevi dei titoli della loro produzione, i secondi preoccupati in primo luogo della solvibilità del parco clienti, solvibilità messa gravemente a rischio da un'eccessiva esposizione. Da anni e anni, infatti, nella Scuola Librai «Umberto ed Elisabetta Mauri» delle Messaggerie Libri qualsiasi lezione si apre con l'esortazione a «rendere, rendere, rendere» mantenendo il magazzino leggero e rapido come un ninja. Il feticcio dell'iR (indice di rotazione) proietta la sua ombra pesante ovunque come un dogma di carattere sessuale nella morale cristiana.
Per sfuggire a tali prescrizioni bisogna disporre di capitali inesauribili e soprattutto della disponibilità a perderli. In mancanza, come è il caso del sottoscritto, non resta che cercare di selezionare con disperata capacità divinatoria i titoli che «andranno» (perlomeno nella propria libreria) cercando di evitare gli altri e organizzare le rese con un minimo di discernimento. Anche se, come per tutte le librerie, a fine anno si finisce comunque per computare un buon 40% di titoli che non si sono venduti nemmeno in copia singola.
Ma è questo un discorso che non si può concludere qui, evidentemente. E prometto di ritornarci, anche perché più passa il tempo più mi convinco che il diritto di resa, come i tempi di pagamento e in generale l'organizzazione commerciale del commercio librario, debbano essere radicalmente rivisti e ridiscussi.
Un ultimo pensiero, comunque, lo meritano, gli ignari autori, magari esordienti dopo lunga e faticosa anticamera, che si illudono che il loro libro possa trovare degna collocazione in libreria per un tempo congruo.
Dopo di ché è fatta.
Faranno meglio a informarsi, temo.

18.7.08

Parodia, calco, citazione

Il primo volume della serie di Fata Morgana non è come gli altri un'antologia tematica, ma raccoglie una scelta di materiali a suo tempo prodotti dal seminario di scrittura autogestito che tenemmo per un paio d'anni presso la libreria. I racconti pubblicati sono quindi, a tutti gli effetti, esercizi svolti raccolti e pubblicati una prima volta nella prima serie di LN e poi nuovamente pubblicati nell'antologia.
Difficile dire, anche a distanza di tempo, se avevano un valore «letterario» reale o se il loro valore era ed è più modestamente quello di un obiettivo raggiunto o di un lavoro terminato. Curioso constatare, comunque, nel rivederli e rileggerli, il peso che abbiamo dato nel nostro lavoro alla parodia e al calco. Abbiamo lavorato parecchio e con pignoleria sugli stereotipi e sulla prevedibilità, evidentemente, cercando di fissare un sistema di riferimenti che ci permettessero di evitare di cadere nel tranello del già letto, già visto, già digerito. Non abbiamo «citato», insomma ma siamo andati giù più o meno pesanti su alcuni generi e stili che, all'epoca, erano particolarmente frequentati e che comunque non sono caduti nel frattempo nel dimenticatoio anche se forse hanno cambiato nome.
La letteratura «cannibale» o per il testo metropolitano/on the road con frequentissime citazioni di brani musicali fanno ancora parte del paesaggio narrativo, anche se si sono almeno in parte diluiti e mescolati scomparendo sotto l'indistinta etichetta del «noir».
Il «romanzo di sentimenti» del quale forniamo un saggio particolarmente stucchevole a immaginaria firma di Edna Corsieri Bellombra si è fatto più professionale e più schiettamente erotico e la protagonista femminile è ormai in pratica sempre una single con problemi di peso, rapporti di lavoro, casa, denaro ecc. Il romanzo «al femminile» sembra insomma aver abbandonato il campo del parodiabile per entrare direttamente in quello dell'autoparodia più o meno divertita e divertente, pur senza liberarsi completamente del fantasma del matrimonio e della convivenza.
Molto diverso il discorso per il fantasy.
Il nostro immaginario eroe Sakass (nome che richiama certi nomignoli o certe voci schiettamente parte del vernacolo piemontese) , amico e compagno d'arme del vichingo Trotzdem («nonostante», in tedesco) ha un forte debito narrativo - pur nella sua sostanza di parodia - con il Conan di R.E.Howard o, meglio, con i suoi derivati cinematografici. Sakass non è giovane (meno che meno adolescente) e diffida del sesso, tanto da prediligere in ogni occasione il rapporto con gli altri maschi. Questa venatura, se non omosessuale almeno misogina, è una caratteristica piuttosto comune nel fantasy di derivazione howardiana - peraltro molto evidente anche in Tolkien - e, più in generale, nel romanzo d'avventura dagli anni '20 agli anni '70, sia pure talvolta in forma di ironica autoparodia[1].
Il panorama attuale, perlomeno nel campo del romanzo d'avventura e fantasy italiano, sembra tuttavia completamente mutato. Gli e soprattutto le adolescenti sono diventati i soggetti di una letteratura per «giovani adulti» che riutilizza senza risparmio i fondali e i costumi della tradizione fantasy senza, per la verità, aggiungere nulla o quasi di originale o imprevisto, anzi perdendo o deformando qualsiasi riferimento a una preistoria immaginaria (Era Hyboriana) o a un'immaginaria Età di Mezzo, con ciò distruggendo un fortissimo elemento di suggestione. Dovessimo riscrivere la pagina del nostro Sakass, insomma, dovremmo al massimo ringiovanirlo e cambiargli sesso, eliminare le parti che riguardano la perfida e lasciva maga Gerarda, ringiovanire Trotzdem e farne un immortale o semiimmortale elfo, aggiungere qualche drago chiacchierone, qualche insulso goblin e via. Avendo la pazienza e la voglia potremmo anche aggiungere un inizio e una fine e averne un romanzotto da 400 o 500 pagine da mandare a Mondadori o Rizzoli. O a Einaudi, si suppone alla ricerca di un secondo romanzo fantasy.
Una cosa facile, fatta al risparmio e senza dover sudare a inventarsi qualcosa di serio e originale.
Meriterebbe pensarci.
Un'ultima osservazione nata da un commento di mia figlia, sedicenne lettrice di fantasy, sia pure incostante e criticona: «Perché i personaggi fantasy hanno sempre nomi tanto assurdi?»
Già, perché?
È ben vero che un personaggio fantasy di nome Giovanni o Pietro sarebbe come il celebre disco volante che atterra su Lucca di fruttero-lucentinesca memoria ma resta il fatto che la nomenclatura di personaggi e luoghi (date un'occhiata alle immancabili «mappe» in apertura ai romanzi) nel fantasy italiano è quantomeno deficitaria, se non completamente deficiente.
Un segnale di trascuratezza e di disprezzo per il lettore?
Sinceramente, credo proprio di sì.

[1] La mia competenza nel campo del fantasy è piuttosto limitata. Per una documentazione ricca e divertente rimando volentieri alla serie di articoli «Per una storia naturale della letteratura fantastica» di Davide Mana pubblicati sulla rivista LN-LibriNuovi e giunti al numero 36.

14.7.08

L'Indice dei libri e «In controtempo»

Sul numero 7/8 de «L'Indice di libri del mese» è uscita, a firma di Franco Pezzini, la recensione a In controtempo. Per un caso fortuito nella stessa pagina dove è stata pubblicata la recensione alla mia antologia compare anche la recensione a Scrutare nel buio di P.K.Dick, uno dei miei romanzi preferiti della sua vastissima produzione. Difficile descrivere la sensazione che mi ha dato vedere il titolo di una mia cosa proprio lì, nella stessa pagina. Basta a compensarmi largamente, diciamo, dell'esito del Premio Urania.
Chi scrive ha sempre il dubbio che ciò che ha scritto non sia perfettamente compreso o che si presti a equivoci. Franco Pezzini ha, viceversa, azzeccato tutto con una sensibilità e un'attenzione più uniche che rare.
Detto da uno che fa il recensore a sua volta.
Come se non bastasse ha colto e sottolineato il valore aggiunto dato all'antologia dalle fotografie di Cettina Calabrò.
Grazie, Cet, ancora una volta.
Di seguito il testo della recensione che Franco Pezzini mi ha gentilmente fatto avere:

«Un fantastico totalmente diverso è quello che anima la bellissima raccolta In controtempo del libraio-scrittore-editore Massimo Citi. I fantasmi che increspano le sue narrazioni – che opportunamente denunciano la data di scrittura, tutte degli anni 1993-1995 – non sono però ombre di morti, ma piuttosto di situazioni, cose, sensazioni nella risacca del tempo. Ciò che li rende persino più inquietanti, dolcemente ineluttabili e comunque irriconoscibili a chi non si fermi ad ascoltarne lo sgocciolio o presuma di recepirli con grossolane categorie spiritistiche. Più inquietanti perché pronti ad annunciare il nostro trascorrere insieme con loro, o – ciò che è peggio – a denunciarci prigionieri di uno scarto del tempo sempre indietro rispetto al flusso collettivo della vita; più inquietanti, ancora, perché pronti a possedere gli involontari sensitivi senza la complicità o la rabbia degli spettri romantici, ma con l’asciutta forza dell’inorganico (polvere, elettricità) e il medium di banali elettrodomestici. Scale che conducono a interminabili sotterranei che si svelano anzitutto interiori al lettore, e parlano un linguaggio onirico misteriosamente noto; amori tutti virtuali, nella lente di sguardi spersi verso un desolato tentativo di messa a fuoco della vita; giardini conchiusi e vie sconosciute a immagine di spazi o derive mentali: il fantastico urbano di Citi si dipana tra la Torino rugginosa dell’archeologia industriale e perplesse marine fuori stagione e dal sentore d’abbandono, dove i rapporti si decompongono in cambiamenti impercettibili sfarinandosi in solitudine e polvere esistenziale. Forse l’immagine più folgorante, inquieta e terribile della raccolta è racchiusa nel racconto Linea di confine – che, si può concordare con Alessandro Defilippi nella lucida prefazione, ne rappresenta forse la prova migliore: la possessione televisiva da parte di un passato limaccioso a base di film del Ventennio e allucinate visioni di architetture di regime sotto la pioggia battente, in un non-tempo pronto a emergere e inghiottire. Alla raccolta, merita rammentare, si accompagnano le belle foto di Cettina Calabrò, che più che commentare suggeriscono un percorso complementare o una chiave di lettura: a partire da quella di copertina, l’orologio di una vanitas tutta laica e dolcemente inesorabile.»

11.7.08

Parassita, commensale o simbionte?

Ho studiato parassitologia all'università per uno dei 12 o 13 esami di medicina che a suo tempo diedi. Era la parte più «amena» di un esame abbastanza tosto, quello di microbiologia. Considerevole, comunque, il numero e la varietà dei parassiti ai quali siamo esposti. Preciso che «ameno» l'argomento mi era apparso per via della mia insana passione per la letteratura horror e fantascientifica. E il parassitismo orrorifico oltre a essere uno spasso di per sè - corpi umani contaminati, devastati, posseduti, orribilmente modificati - confina con un altro dei luoghi della letteratura fantastica: la possessione.
Purtroppo i parassiti veri che prosperano dove le condizioni di vita sono insalubri hanno molto di orribile (non di orrido) e poco di suggestivo.
Più interessanti - e più vicine al concetto evolutivo di cooperazione caro a Kropotkin - mi sembrano creature di altro genere. I commensali ovvero, per esempio, i batteri che vivono nel nostro intestino procurandosi la sopravvivenza e regalando a noi (gratis, a differenza delle major farmaceutiche) alcune vitamine essenziali che il nostro corpo non sa sintetizzare biochimicamente. E i simbionti, ovvero creature che collaborano con reciproco vantaggio come le bufaghe e i coccodrilli.
Tutta questa classificazione mi è venuta in mente leggendo un interessante intervento pubblicato sul blog «Baionette librarie» retto da Il Duca.
Premesso che merita leggere per intero l'intervento del blogger, dirò che tesi centrale dell'intervento è che il prezzo dei libri è la conseguenza, come per tutti gli altri prodotti, dell'intermediazione. Intermediazione che, in questo caso, avviene nella forma della distribuzione. Soggetti della distribuzione sono:
a) il distributore (che grava con un 15-20% sul prezzo di copertina del libro)
b) il promotore (un 5%)
c) il libraio (25-30%)
Concisamente Il Duca definisce queste tre figure professionali «parassiti», nel senso che risultano inessenziali al processo creativo, del quale è primum movens l'autore, interlocutore l'editore e fruitore il lettore.
A rigore, afferma ancora Il Duca, i soli enti necessari alla lettura sono l'autore e il lettore.
E la distribuzione a mezzo internet può essere lo strumento che, facendo saltare la necessità della distribuzione fisica, rende il libro meno costoso.
Un discorso che fila perfettamente liscio.
Tanto liscio che vien voglia di andare a cercarne gli inevitabili difetti, se ne esistono.
L'essere un «parassita» non mi sgomenta più che tanto. Tanto più che sono anche microeditore (sempre un po' parassita, ma un po' meno) e autore (primum movens, perdinci!).
Ma la categoria «parassita» è forse un po' draconiana se persino il blogger di Baionette Librarie ammette, in una sua replica, che funzione del libraio è quella di fornire un valore aggiunto al suo stock di titoli svolgendo una funzione di orientamento. In mancanza di essa viene a cadere qualsiasi valore aggiunto e il libraio ritorna al suo status parassitario.
Osservazione laterale, ma non troppo.
Molti tendono a credere che la funzione di orientamento del libraio consista nell'emettere giudizi, consigli, indicazioni e controindicazioni a gentile richiesta. Fare, insomma, il bugiardino del libro a imitazione di quello allegato ai farmaci.
Questa è certo una parte del mio lavoro, tenendo conto che, come spiegavo in un mio vecchio post, un conto è orientarsi nella produzione un altro è avere effettivamente letto una quota significativa dei libri pubblicati. Ma la parte probabilmente più sottilmente e arcanamente efficace nell'influenzare le decisioni di acquisto dei lettori è la scelta dei titoli da esporre.
Tutti, persino i commessi delle Feltrinelli, sanno comporre una vetrina a forza di titoli in classifica - classifiche che per attendibilità, detto per inciso, non valgono letteralmente la carta sulla quale sono stampate - con ciò affermando ad alta voce: «Ecco qui la libreria per eccellenza dove puoi trovare i titoli che TUTTI, tu compreso, dovete aver voglia di leggere!»
La conosciamo tutti la frase: «Mangia merda! Miliardi di mosche non possono avere torto
Sarà per questo che ormai associo automaticamente le Feltrinelli ai fertilizzanti naturali?
Ma sto andando fuori tema, quindi mi fermo qui.
Se uno non compone una vetrina in questi termini e non affolla i dintorni della cassa di titolini cretini per il mitico «acquisto d'impulso» rischia in termini di incasso ma afferma che la libreria possiede un colore e un sapore del tutto propri e caratteristici.
Nemmeno io sono così temerario da ignorare i titoli che si ritengono più venduti e non trascuro di esporre i Camilleri, i Giordano, i Faletti, Jeffrey Deaver o il topo Firmino. MA, ed è un ma «pesante», accanto ad essi schiero Pahor, o James Sallis o Murakami Haruki, Druznikov, Von Arnim, Palahniuk. Il libro della mia amica Sara che non sarà chissacosa ma è fresco e dolcemente malinconico. La ristampa di un vecchio Iain M. Banks, un Ballard o un Pratchett. Amado e Cortazar, una novità di Marcos y Marcos - che raramente delude - Sedaris, Mailer e Philip Roth, Marina Jarre, Andrei Makine. William Vollmann e Patrick McGrath. E per brevità non accenno alla saggistica.
SE faccio questo - stimolo la curiosità, induco in tentazione - ho la benefica illusione di non essere propriamente un parassita e ho la sensazione di essermi guadagnato la pagnotta.
Il successo commerciale non è, in realtà, il metro di altro che di se stesso. Il «valore» reale dei libri è profondamente personale. Certi libri sono talmente intessuti con il filo delle nostre vite da diventarne parte.
Parassita?
Ogni anno in Italia escono più di 30.000 nuovi titoli.
Può darsi che un filtro non serva a nulla e che tutti i lettori siano perfettamente in grado di orientarsi autonomamente. Ma è difficile crederci, dal momento che il lettore non ha il tempo di informarsi costantemente. Molti (alcuni?) librai fanno - come possono, per quello che possono e ognuno secondo i suoi gusti e sensibilità - il lavoro di proporre qualcosa che non sia il titolo strapompato da marketing e dai media. Fa resistenza, visti i tempi, alla frenesia degli utili rapidi, dei margini inadeguati e assurdi per il tipo di prodotto.
Il libro può essere fruttuoso, anche economicamente, ma ha bisogno di tempo. Proprio come un bosco.
Non sarebbe il caso di promuovere - almeno i librai indipendenti - da parassiti a commensali o a simbionti del lettore?
...
In realtà a spingere in alto i prezzi nel mercato del libro in Italia più che l'esistenza di «parassiti» è la sua stessa irrilevanza economica. Troppo pochi i lettori e troppo basse le tirature in un mercato schiacciato e deformato dal peso di grandi gruppi editoriali - a loro volta feudi di imperi economici - dove è normale esigere tassi di crescita a due cifre.
Un quadro economico di questo genere - così sotto tensione - crea automaticamente una rincorsa al rialzo dei prezzi. Il risultato nel medio periodo è quello di espellere dal mercato gli editori che non ce la fanno creando marginalità. I libri su internet, nonostante le illusioni di Gamberetta & soci, sono sicuramente una risorsa (per chi sa utilizzarlo) ma allo stato attuale delle cose rischiano di essere semplicemente la fotografia di una sconfitta storica.
Perché, seriamente, stiamo rischiando di trovarci in un paese dove esistono - nel senso che sono distribuiti capillarmente e sono onnipresenti nelle librerie di catena e nella GDO - sostanzialmente 5 grandi gruppi editoriali. Con molti marchi ma un solo cervello editoriale. Che puntano su titoli e autori in grado di garantire un rientro rapido dell'investimento. E che vogliono presentare agli azionisti una cifra di fatturato preceduta da un + xx,xx.
Io, da anarchico malinconico, tendo a pensare che il vero parassitismo sia quello della proprietà. Ma sono nato in altri tempi e ho vissuto in altri anni. Quindi posso sbagliarmi.
In ogni caso, comunque, è bene avere chiari i bersagli.
Prima di ogni altra cosa.

10.7.08

Affondamento per decreto


Non lavoro all'università e ho avuto con essa rapporti complicati e decisamente poco sereni. Ma sono profondamente conscio della sua importanza e del suo enorme valore civile e culturale, indipendentemente dagli innumerevoli difetti e vizi di gestione che sono emersi soprattutto in questi ultimi anni. L'Università non funziona come dovrebbe, l'esborso per l'iscrizione e i costi per la frequenza sono diventati decisamente gravosi, le possibilità di ingresso e di carriera sono limitate - spesso per motivi che non hanno nulla a che fare con la scarsità di risorse - e in generale in molti casi a essere premiati non sono le idee, l'iniziativa e l'impegno ma l'atteggiamento feudale e il conformismo.
Eppure è difficile non perdere il controllo nel constatare qual è l'atteggiamento del terzo governo Berlusconi nei confronti di un'istituzione che ha qualche secolo di vita e, sia pure senza dimenticarne i momenti più neri (qualcuno ricorda il numero di professori universitari che rifiutarono il giuramento al Regime Fascista?), vanta non pochi momenti di gloria culturale e scientifica.
Ho diversi amici e conoscenti che lavorano all'Università di Torino. Sono persone onestamente appassionate del proprio lavoro e conscie del suo valore. Difficile, di conseguenza, trovare qualcuno altrettanto ferocemente polemico con l'attuale gestione degli Atenei italiani e altrettanto disgustato per la cecità e la trascuratezza dimostrate dal potere politico di ogni colore nell'amministrare un bene di enorme importanza per il futuro del nostro paese.
Ma siccome al peggio non c'è mai fine, un paio di giorni fa ho ricevuto un'e-mail da uno di questi miei amici, subj.: D.L. 112/08.
Si tratta di un Decreto Legge emanato dal governo attualmente in carica. E rappresenta, nè più né meno, il de profundis per l'università pubblica italiana.
Non c'è molto altro da aggiungere, penso.
Riporto di seguito (il tutto è un po' lunghetto, mi dispiace, ma merita) sia la mozione approvata l'8/7/08 dal Consiglio della Facoltà di Scienze MMFFNN di Torino che una mozione presentata da Igor Pesando, professore associato presso il Corso di Laurea in Fisica. Si noterà che la mozione della facoltà riprende in gran parte le osservazioni di Pesando, pur senza riprenderne gli spunti polemici.
Buona lettura e buona digestione.







Il Consiglio della Facoltà di Scienze MMFFNN dell’Università di Torino,
riunito il 8 luglio 2008,
esprime
la propria profonda contrarietà
alle disposizioni riguardanti l’Università italiana
contenute nel
D.L. 112/08.

Il Consiglio di Facoltà ritiene che queste misure, qui sotto dettagliate,
mentre sono presentate
come volte ad un recupero di efficienza,
in realtà danneggino irreparabilmente l’Università nel suo
complesso,
compresi i suoi numerosi punti di eccellenza, riconosciuti
a livello internazionale
  • Il taglio, nel prossimo triennio, di 500 milioni di euro dal fondo di finanziamento ordinario corrisponde ad ¼ dei fondi effettivamente disponibili dopo il pagamento degli stipendi. Un taglio di tali proporzioni, su un fondo già largamente insufficiente, renderà impossibile il normale funzionamento della ricerca e della didattica universitaria. Si noti come tale taglio si sommi al taglio del 40% effettuato contestualmente sui Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale.
  • Il passaggio degli scatti stipendiali di anzianità dei docenti da biennali a triennali ne riduce ulteriormente gli stipendi (già di gran lunga i più bassi tra i paesi progrediti), penalizzando in particolar modo i più giovani e i più rapidi a fare carriera: oltre a demoralizzare l’attuale corpo docente, accentuerà ulteriormente il fenomeno della “fuga dei cervelli”.
  • La limitazione del turnover al 20% dei pensionamenti azzera le possibilità di rinnovamento del corpo docente in una fase storica cruciale; azzera le legittime speranze di carriera dei giovani ricercatori da poco entrati nel sistema universitario; azzera le speranze di un’intera generazione di precari della ricerca, vanificando gran parte del fondamentale lavoro da essi svolto. Inoltre, associato all’entrata in vigore del D.M. 270/04, il turnover ridotto comporterà da un lato l’incremento delle ore dedicate dai docenti alla didattica, con un progressivo soffocamento dell’attività di ricerca, e dall’altro una pesante riduzione dell’offerta formativa
  • La possibilità data agli atenei di trasformarsi in fondazioni (con un semplice voto del senato accademico) e il conseguente trasferimento a titolo gratuito dell’intero patrimonio degli atenei pubblici in mani private introduce per decreto la privatizzazione dell’università. Ciò avrà gravi ripercussioni sul trattamento economico e giuridico del personale (a cominciare dai tecnici-amministrativi) e sulle scelte di indirizzo in materia di didattica e ricerca. Tutto questo porterà, poi inevitabilmente, a un aumento delle tasse universitarie (le fondazioni private non devono rispettare il tetto del 20% sul Fondo di Finanziamento Ordinario dell’Università).

Queste misure attaccano radicalmente ed in modo del tutto immotivato il sistema universitario italiano, che pure svolge in media, ricerca di alto livello internazionale e mostra una capacità didattica superiore alle risorse ad essa stanziate. Il personale universitario merita una remunerazione dignitosa, con la possibilità di avanzamenti di carriera tramite un’adeguata valutazione del proprio lavoro e con tempi certi. Un intervento finalizzato a migliorare l’attuale sistema universitario è improrogabile, ma deve necessariamente scaturire da un confronto del governo con tutte le realtà all’interno dell’università.

Al fine di contrastare la conversione in legge del DL 112/08, il Consiglio di Facoltà ritiene urgente e fondamentale avviare un dibattito negli organi collegiali dell’Università, compresi gli studenti, per valutare le forme di protesta più opportune che potranno esser estese a tutto il personale. Tra queste occorrerà considerare il rifiuto di svolgere carichi didattici superiori alle richieste di legge, il blocco degli esami, delle sessioni di laurea e delle lezioni.

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A fronte della lodevole dichiarazione di intenti da parte del Governo
di condurre una lotta agli sprechi della Pubblica Amministrazione
liberando in questa maniera importanti risorse per lo sviluppo del
Paese, segnaliamo la totale incongruenza ed inadeguatezza dei
provvedimenti finanziari presi nei confronti dell'Università, e non
solo di essa...

Tali provvedimenti si configurano come punitivi in quanto non si
conformano alla "best practice" di gestione manageriale, che
richiederebbe l'individuazione delle inefficienze e la loro
eliminazione, ma colpiscono indistintamente.
Nel dettaglio alcune dellle azioni intraprese che non sembrano
assolutamente premiare il merito:
1) il PRIN 2007 non e' stato ancora erogato e la cifra che sarà
erogata sarà probabilmente di circa di 90M Euro per tutta
l'Università italiana mentre nel 2005 i fondi assegnati erano circa
131M Euro e nel 2003 137M Euro. Le ricerche che risultano assegnatarie
del precedente fondo sono quelle che hanno superato una selezione con
referee internazionali e nazionali. Il taglio rappresenta una
contrazione del 45% ed una riduzione di circa 40M Euro. I 40M Euro di
taglio per tutta la ricerca non finalizzata di tutta l'Università
italiana possono e devono esser paragonati ai 1.500.000 Euro assegnati
(usati 500.000) per il capitolo R11501 "SPESE RAPPRESENTANZA DEL
PRESIDENTE DELLA REGIONE LAZIO" come dal consuntivo della Legge
finanziaria 2007 della regione Lazio;
2) il taglio durante prossimo triennio di 500M euro dal fondo di
finanziamento ordinario (pari a circa il 25% dei fondi non usati in
stipendi che sono il 10% dei 6300M Euro all'anno del FFO) renderà
impossibile il normale funzionamento della ricerca e della didattica
universitaria. Il finanziamento è già ora scarso infatti da
eurostat si nota come la spesa per "higher education" è in Italia
pari a circa lo 0.33% del PIL a fronte del 0.42% dell'EU15. È
altresì chiaro come non tutte le università siano dello stesso
livello quindi tagliare indistintamente porta una riduzione
generalizzata dell'efficienza del sistema. Di fronte a questo taglio
di 500M Euro al sistema Università vengono sprecati almeno 350M per
l'Alitalia (1).
3) la limitazione del turnover al 20% delle unita' del personale fino
al 2011 azzera le speranze di un’intera generazione di precari della ricerca,
vanificando gran parte del fondamentale lavoro da essi svolto.
Se risparmi devono esserci, venga graduato il turnover tenendo in
considerazione i risultati della valutazione del civr che ha
evidenziato chiaramente diversità di qualità fra diverse aree di
diverse Università.
L'Università subisce il taglio 80% del turnover (le forze di Polizia
del 90%) pero' 2.100.000 euro vengono assegnati al capitolo di spesa
7.1.0.1.169.3911 "CONTRIBUTO PER L'INDENNITA' DI FINE MANDATO E GLI
ASSEGNI VITALIZI AI CONSIGLIERI REGIONALI" come dal
Rendiconto 2006 della Regione Lombardia;
4) il passaggio tout-court degli scatti stipendiali di anzianità dei
docenti da biennali a triennali riduce gli stipendi
in modo indifferenziato a chi lavora seriamente e chi meno. Inoltre
penalizza in particolar modo i più giovani e i più rapidi a fare
carriera, non incentiva sicuramente l’attuale corpo docente a fare
meglio e di più ed accentuerà ulteriormente il fenomeno della «fuga
dei cervelli»;
5) la possibilità data agli atenei di trasformarsi in fondazioni (con
un semplice voto del senato accademico) e il conseguente trasferimento
a titolo gratuito dell'intero patrimonio pubblico degli atenei
pubblici in mani private introduce per decreto la privatizzazione
dell'Università. Ciò avrà gravi ripercussioni sul trattamento
economico e giuridico del personale (a cominciare dai
tecnici-amministrativi) e sulle scelte di indirizzo in materia di
didattica e ricerca. Tutto questo porterà, poi inevitabilmente, a un
aumento delle tasse universitarie (le fondazioni private non devono
rispettare il tetto del 20% sul FFO).

NOTE

1) L'Alitalia sarà probabilmente portata ad un fallimento pilotato
con la separazione di una parte sana ma con una nano rete ed una
compagnia malata con quasi tutti i debiti. In questo caso
il recovery rate dei 500M di prestito ponte sara' soltanto il 30% (Moody's
Investor's Service) poiché il debito e' di grado junk
siccome la probabilita' di fallimento deducibile dalle obbligazioni
convertibili (sospese in borsa a giugno) con scadenza luglio 2010e' pari circa a 86%.


N.B.: la discussione continua in un apposito forum sul sito della rivista LN-LibriNuovi.

8.7.08

Perdere con stile (?)

Ieri, 7 luglio 2008, il neonato blog di Urania ha pubblicato il nome del vincitore e dei finalisti del Premio Urania 2007.
Ho così scoperto di non aver vinto nulla. Nemmeno la consolazione di essere arrivato tra i finalisti.
Partecipavo con un romanzo e mezzo, ovvero con un romanzo interamente mio, Una questione di tempo e con uno scritto a quattro mani con Silvia Treves, Fatpass. Space Opera con qualche omaggio a due dei miei autori preferiti il primo (Iain M.Banks e Cordwainer Smith), un giallo crepuscolare ambientato in un mondo al capolinea il secondo. Non si tratta di due capolavori, beninteso, ma di opere perlomeno decenti.
Tra i principali difetti di entrambi suppongo vi siano uno svolgimento troppo complesso, l'attenzione eccessiva alla definizione dell'ambiente e del contesto sociale, la pretesa di costante attenzione rivolta al lettore.
Altri difetti: molti personaggi - forse troppi - dei quali non pochi esibiscono una condotta non perfettamente limpida e non immediatamente classificabile. «Manca un “eroe” riconoscibile...» ebbe a dirmi Davide Mana al quale diedi in lettura una copia di Una questione di tempo, «... non è molto usuale in un romanzo di SF». La complessità dell'intreccio è un altro elemento di debolezza di Una questione di tempo. In più: «Il romanzo è debole nella chiusura...» mi disse Vittorio Catani, «... nel senso che manca una catarsi finale nella quale si scarichi la tensione accumulata».
Consigli preziosi dei quali non potei fare tesoro per l'ottimo motivo che diedi il romanzo in lettura soltanto dopo averlo inviato a «Urania». Consigli che potranno comunque essermi utili per un'eventuale revisione.
Fatto sta che questo giro è andato male.
Certo, date queste premesse non potevo logicamente attendermi un successo, né facile né difficile. Debbo ammettere che non mi è perfettamente chiara la logica delle scelte editoriali dell'ultima fase di «Urania» (colpa mia, dal momento che non frequento la SF quanto dovrei, soprattutto viste le mie ambizioni di scriverne) ma basandomi sulla pubblicazione di romanzi come Luce dell'universo di M. John Harrison ammetto di aver coltivato la convinzione che qualcosa di un po' tosto potesse persino starci. Evidentemente non è così e scenari eccessivamente complessi e un linguaggio un po' troppo personale non sono esattamente viatici al successo. Perlomeno in Italia.
Anche qui si tratta di limiti miei (e anche di Silvia Treves, detto per inciso). Crediamo di scrivere in modo piano e amichevole mentre forse siamo soltanto contorti e pretenziosi. Crediamo di suggerire mentre risultiamo oscuri. Crediamo di mostrare mentre nascondiamo, occultiamo, confondiamo.
Sono raffinato, secondo Gordiano Lupi.
Che probabilmente è un complimento, anche se suona necessariamente ambiguo, soprattutto di questi tempi.
Tutto ciò non significa non saper scrivere, certo, ma significa avere considerevoli difficoltà nel trovare un editore.
Appunto.
L'essere contorto - nel senso di non immediatamente assimilabile e digeribile - è parte della mia cifra come direbbero un recensore o un prefatore seri. In sostanza mi piace scrivere ciò che mi piace leggere. E io leggo abitualmente (per svago) romanzi non proprio così friendly. Uno degli ultimi che ho letto e debitamente apprezzato è Grotesque di Natsuo Kirino, 900 e più pagine di algide e menzognere confessioni di quattro allieve modello della più prestigiosa scuola privata giapponese. Un romanzo che è letteralmente un atto d'accusa contro l'attuale stile di vita nipponico. Molto contorto oh, yeah, tanto che per il lettore è impossibile anche soltanto credere a quanto le protagoniste raccontano di loro stesse.
Anche a me piace giocare con la capacità dei personaggi di mentire a loro stessi.
Mi piace correre sul filo dell'ambiguità obbligando personaggi positivi a compiere gesti censurabili o ambigui. O presentando le ragioni dei personaggi negativi in maniera affascinata e affascinante.
Mi piace che si intuisca un'ombra dietro ogni gesto, azione, pensiero.
Perché non credo alla buona fede anche se ammiro l'innocenza.
E perché gli esseri umani hanno il dono di essere straordinariamente complessi e non posso scriverne senza almeno tentare di rendere omaggio - mimandola - a tale complessità
...
Non ho vinto il Premio Urania, quindi.
Pazienza. Questo non mi impedirà di scrivere ancora.
Da chimera perennemente divisa tra SF e qualcos'altro.
Apprendo che in questa edizione i lettori degli ottanta romanzi giunti sono stati tre. Questo probabilmente spiega perché per avere il vincitore si siano dovuti attendere ben otto mesi. I tre sono un editor, il direttore di Urania e il direttore delle collane periodiche Mondadori. Come dire che non si trattava di un giuria - con tutte le possibili sfumature di gusto e sensibilità degli autori coinvolti - ma semplicemente di una seduta straordinaria dello staff mondadoriano.
Come dire che gli autori segati come il sottoscritto debbono dispiacersi della loro débacle non più di quanto si dispiacciano di una normale lettera editoriale che comunica che: «Il suo romanzo non rientra nei nostri attuali piani editoriali». Le loro opere non sono stati massacrate dal Gotha del fantastico fantascientifico italiano, insomma, ma semplicemente ritenute non confacenti.
Perché chiamarlo «Premio», allora?
Il problema maggiore, a ben vedere, è che mancano in Italia editori alternativi ai quali rivolgersi. Anche se, evidentemente, gli aspiranti autori non mancano.
...
Lippi comunica, sempre a mezzo blog uraniano, che dall'anno prossimo gli autori già premiati non potranno più partecipare e dovranno inviare direttamente le loro opere in redazione. Il Premio Urania resterà quindi terreno di caccia per i nuovi autori.
Una mossa che evita il ridicolo - non degli autori premiati né dei loro testi, sia chiaro - di vedere scrittori già premiati e pubblicati essere ripremiati e ripubblicati. Come se fosse escluso in partenza, perlomeno in campo fantascientifico, un normale e ordinario rapporto di collaborazione tra autore ed editore.
Un curioso fenomeno che sospetto soltanto italiano.
Il Premio Urania sembra più promettente, a questo punto?
Sinceramente non lo so.
Penso sarebbe auspicabile avere in anticipo e scritti sul bando il nome degli autori coinvolti in una vera giuria e non scoprire a giochi fatti che la giuria non era esattamente una giuria [1].
Semplice correttezza verso i partecipanti, no?

[1] Art. 5 del bando per il Premio Urania ed. 2007: - «Una giuria composta da esperti esaminerà i dattiloscritti, assieme alla redazione, e deciderà il vincitore il cui romanzo sarà pubblicato su Urania nel prossimo anno.»

4.7.08

Da dove arrivano i libri? Parte 3

Ritorno alla mia specialità, che è poi anche il mio lavoro: la scelta delle novità e la scelta dei titoli da tenere sempre disponibili («a stock», come dicono quelli bravi).
C'è bisogno di dire che la scelta dei titoli da acquistare e, soprattutto, quella dei titoli da avere sempre «in casa» costituisce un buon 50% della professionalità di chi fa il mio lavoro?
Dei titoli novità da acquistare ne ho parlato più volte, come ho parlato della necessità di «difendersi» dall'inflazione libraria (ovvero l'eccessivo numero di titoli prodotti in rapporto all'assorbimento del mercato italiano) e da una produzione ormai dimensionata sulle librerie di grande superficie. Ho parlato della clonazione di idee e temi in narrativa ma forse non abbastanza del cannibalismo in campo saggistico. Lo accenno qui con la promessa di ritornare sul tema.
Il cannibalismo consiste nel prendere un trattato, riassumerlo o tripartirlo e farne uno o più testi (relativamente) indipendenti o nel pubblicare singoli capitoli di un libro con titoli diversi e senza avvisare (se non in una nota microscopica) che il saggetto è stato in realtà già pubblicato. O nel ripubblicare con titolo mutato un libro già uscito o nel recuperarne soltano una parte e ristamparla senza avvisare. Lodevoli piccole economie, si può affermare, o meritevoli recuperi di materiali ormai fuori commercio. Se non fosse che i cultori di quella determinata materia (vita quotidiana sumera, avventure di alchimisti celebri o storiografia della marina militare giapponese) in genere sono felicissimi di trovare e acquistare un altro titolo attinente alla loro passione scritto da un noto esperto dell'argomento, salvo scoprire in un secondo momento che... l'avevano già letto.
Ma sono andato fuori tema.
Mi capita spesso.
Torno a bomba.
Criteri di scelta dei titoli.
NON esiste un criterio unico e indiscutibile, meglio dirlo subito.
Dipende dai lettori che frequentano la libreria, da dove si trova la libreria, da qual è la sua specializzazione - se ne possiede una, dal suo passato o dalle intenzioni per il futuro.
E dipende anche dai rapporti con distributori ed editori.
Ovviamente una libreria deve preoccuparsi di avere a magazzino le novità che, si suppone, possono interessare al suo pubblico abituale, senza però trascurare completamente i possibili best-seller che, senza tanti snobismi, sono poi i libri acquistati da quel lettore «medio» che acquista un libro non perché reading-addicted come il sottoscritto e i suoi amici ma per semplice curiosità: «Si parla tanto di quel libro, chissà come sarà?». Il lettore irregolare e occasionale, quello che, se opportunamente stimolato, fa di un successo editoriale un best-seller da centinaia di migliaia di copie.
Un atteggiamento, comunque, che deve essere molto diverso dall'adesione supina e stuoinica alla politica commerciale del grande gruppo. Per i grandi gruppi editoriali e particolarmente per i loro uffici commerciali e uffici stampa il best-seller nasce perchè la libreria ne ha acquistato abbastanza copie da poter edificare qualche genere di costruzione (un scalinata, un bunker, un foro boario, una piramide, una stonehenge) in vetrina e/o nelle vicinanze della cassa.
Magari schierandovi accanto la riproduzione 1:1 dell'autore, in gergo detta «sagomone».
Andate a vedere in una Feltrinelli Village per vedere che cosa intendo.
Parlando di sagomoni, noi abbiamo ancora da qualche parte un Magris, un Wilbur Smith e un Patterson (non mi ricordo quale Patterson, però). Si trovano in angoli poco frequentati della libreria e svolgono adesso l'imprevista funzione di spaventaclienti. Nessuno riesce più a ricordarsi in occasione di quale best-seller siano stati prodotti, ma non si ha il coraggio di regalarli a Progetto Cartesio. Sono come le armature finte nella casa degli Addams: spaventano affettuosamente.
Di nuovo fuori tema.
Rientro.
Se acquistate multipli di dieci o di cento di un titolo strapompato dall'editore dimostrate di avere fiducia nel titolo. E il grande editore e soprattutto il promotore vi vorranno bene. Ve lo dimostreranno con un sovrasconto micragnoso (+2%, +3%)[1] e con un termine di pagamento generoso (90 gg o 120 gg invece dei soliti 60gg).
Se poi il titolo «non va»...
Beh, nessuno vi ha obbligato a comprare 100/110 copie di Nuda a strisce, noir metropolitano e solipsista, sessualmente perverso ed estremo, séguito del grande successo Nuda a righe. Secondo l'editore avete autonomamente valutato di poterlo «spingere» (ovvero affibbiarlo a tutti: suore, bimbi, allievi rabbini e ambulanti maghrebini compresi) e quindi giustamente e autonomamente dovete pagarlo prima di vedere l'accredito delle 101 copie che avete reso tre mesi dopo l'uscita (e quindici giorni dopo il rogo del sagomone dell'autore, Tullio Morgan Prestipino).
Attenzione.
Su questo meccanismo sopravvive l'esausta editoria italiana.
Sbagliare la prenotazione è umano, soprattutto se non si è troppo scafati e l'editore ha effettivamente sparato tutto lo sparabile nella presentazione. Ultimi due esempi che ricordi: City di Alessandro Baricco e Ascolta la mia voce di Susanna Tamaro. Un fiasco il primo, un fiasco sanguinoso il secondo. Un attimo, però, per un chiarimento. Si tratta di titoli che hanno comunque venduto ma mooooolto meno di quanto l'editore su sarebbe aspettato. Il valore letterario e artistico dei due libri non è qui in discussione - anche se personalmente sono convinto che si tratti (per usare un eufemismo) di prove minori dei due autori citati - ciò che è qui in discussione sono i problemi di esposizione finanziaria che uno o una serie di best-seller falliti creano alla libreria e qual è la sorte delle troppe copie rimaste invendute.
Per quanto riguarda l'esposizione: il diritto di resa delle copie invendute mette entro certi limiti al sicuro il libraio. Entro certi limiti, però. Lo scenario è questo: il libraio deve pagare entro 120 gg le sue 50 copie di City. Ma trascorsi 90 gg ne ha vendute meno di 20. Conoscendo il mondo - e quello librario in particolare - si rende conto che se il libro non ha ancora funzionato non funzionerà mai. Infatti se gli acquirenti delle prime copie fossero rimasti folgorati dalla bellezza del romanzo avrebbero innescato un meccanismo di emulazione (il leggendario tam-tam dei lettori) che avrebbe sostenuto le vendite del libro anche dopo la fine della campagna di promozione dell'editore. Evidentemente i primi lettori hanno quantomeno tenuto a freno il proprio entusiasmo e questo non è accaduto. Nella prima settimana le copie vendute sono state 7, nella seconda 5, nella terza 3, nella quarta 1, nella quinta 1, nella sesta 0, nella settima 1 ecc. Quindi al 90° giorno il libraio convoca il promotore e gli chiede l'autorizzazione a rendere l'eccedenza: una trentina di copie.Il promotore si meraviglia, si addolora, sostiene che altrove il libro «è andato benissimo» ma alla fine capitola. Entro 100 gg. l'eccedenza è ritornata nei magazzini dell'editore o del suo distributore. Ma venti gg. dopo il libraio deve comunque pagare TUTTE le copie a suo tempo ricevute. Smadonnando, sudando, minacciando, stramaledendo paga (se è liquido, ovviamente) e aspetta l'accredito per la resa che gli passerà in conto dopo un paio di mesi. Nel frattempo però il grande editore presenterà un altro grande best-seller che...
Parrebbe facile sfuggire al meccanismo.
Basta ordinare poco.
Ma non funziona così.
Gli editori - particolarmente quelli del gruppo Spagnol (Longanesi, Guanda, Garzanti ecc.) stampano praticamente soltanto le copie che le librerie hanno prenotato.
Se il libro funziona e l'avete finito al primo giorno, per una quindicina di giorni dovrete poi ripetere a pappagallo «È in arrivo» e chiunque penserà che non sapete fare il vostro lavoro: «Ce l'hanno tutti, sono proprio dei poveretti».
Personalmente sono convinto che il diritto di resa sia un meccanismo insano che, in ultima analisi, fa più male che bene al mondo del libro. Crea indebitamento (fasullo) e genera risorse (apparenti) inducendo una sovrapproduzione che mette a rischio la permanenza dei libri in libreria. Prossimamente tornerò a parlarne, magari in forma meno stringata.
Per la prossima volta mi interessa di più parlare del Grande Mare dei libri morti, ovvero della formidabile quantità di libri che, invenduti a causa dei meccanismi di distribuzione dell'editoria libraria, scompaiono dalle librerie per non ritornarvi più.


[1] La matematica degli editori non è quella che conosciamo tutti. Il sovrasconto, infatti, è uno sconto ulteriore calcolato sul netto già scontanto. Quindi non significa 30+2%= 32% ma 30% +2% del 70%= 31,4% e via discorrendo. La consegna dei volumi in libreria costa comunque (porto e imballo) un 3% circa del prezzo di copertina. Quindi un libro acquistato con il 30%+3% significa un libro acquistato con lo sconto del 29,1%.



2.7.08

Scrutare nel buio

Mi dispiace dedicare così tanto spazio e tempo sul blog a parlare della situazione culturale in Italia, ma si tratta del mio lavoro e, soprattutto, della mia vita - o di ciò che ne resta vista l'età non più giovanissima.
«Nel 2007 il 60% degli italiani - 29 milioni di persone con più di 14 anni di età - non ha letto nemmeno la pagina di un libro, né tantomeno si è sognato di comprarne uno», scrive Anna Ardissone nell'editoriale della rivista «Bookshop».
Beh, - si può dire - i libri non sono mica tutto. Ci sono un sacco di altri media.
I giornali, per esempio.
In Italia la diffusione media giornaliera di quotidiani è inferiore del 50% a quella francese. Un quarto di quella tedesca. Un sesto di quella giapponese. E siamo l'unico paese europeo con ben 4 testate quotidiane esclusivamente sportive...
Internet: siamo al 24° posto nell'UE (i membri UE sono 27, ricordo) per l'uso personale del web.
Prendo a piene mani ancora dai dati ISTAT ripresi da «Bookshop».
L'Italia è al 22° posto per la diffusione dell'istruzione secondaria, al 17° per l'apprendimento delle lingue straniere. Ha il più basso rapporto laureati/popolazione nel G9. In compenso è al 5° posto in UE per il tasso di abbandoni scolastici. Al 3° per quanto riguarda la telefonia mobile. Al primo per la spesa pro capite in scarpe e abbigliamento.
Ignoranti come zucche, ma ben vestiti.
Damerini, ma con le pulci.
Insomma, la scarsa diffusione del libro non è una bizzarria statistica ma fa parte del quadro generale di un paese vecchio, ignorante, provinciale e per giunta caciarone e pettegolo («Quest'estate parla quanto vuoi!»)
E l'ignoranza rende vittime della paura. Alla paura si reagisce alla cieca. Si diventa prima reattivi, poi reazionari per ritrovarsi criptonazisti. Si dicono ad alta voce solenni idiozie tanto per farsi coraggio ma si resta sprovveduti e incapaci di capire quando un lestofante ci sta prendendo in giro. Siamo o non siamo il paese dei «furbi»? Siamo poco abituati a riflettere e incapaci di decodificare un testo scritto - oltre il 50% della popolazione adulta italiana letteralmente si perde in un testo che supera le mille battute. Schiavi dell'unico medium davvero diffuso, la TV.
Di chi è la TV?
Vabbè, qui non si parla di politica.
Ma non è politica, un quadro come questo. È pura emergenza, un'emergenza civile e culturale della quale, in apparenza, non frega nulla a nessuno.
Non è un problema di carta stampata sostituita da media più rapidi e moderni, come abbiamo visto. Si consolino gli esponenti della sinistra patetica che tuonano contro internet e i blog: chi frequenta poco i libri e i giornali frequenta poco anche internet.
E viceversa: i lettori di libri e giornali hanno meno difficoltà nel padroneggiare le pagine web.
Q.E.D.
Di chi la colpa di questa situazione?
E come se ne esce?
Le colpe sono moltissime e a voler dare a Cesare quel che è di Cesare si dovrebbe ritornare ai tempi della Controriforma e chiacchierare ad libitum. Limitiamoci agli ultimi 30 anni.
Nessun investimento sulla scuola, nessuna politica di recupero dei minori non scolarizzati, nessuna politica nazionale di promozione culturale, nessuna politica nazionale sul libro e la lettura.
Il massimo vi è stata una politica di sostegno pubblico della stampa periodica che ha reso i giornalisti strilloni del potere politico ed economico. Questo anche senza contare la balordaggine per la quale io mi trovo a sostenere - in quanto contribuente - un giornale di merda (scusate il francesismo) come «Libero» mentre un ipotetico sostenitore della Destra della Santanché contribuisce a sostenere «Liberazione».
Per il resto, nessun investimento, nessuna idea.
Nulla di nulla.
A destra, va bene, ma nemmeno a sinistra. A meno che non si consideri politica culturale escogitare qualche sinecura a livello di ente locale per giovani laureati a spasso.
Il guaio è che investire sulla cultura vuol dire vedere i risultati civili ed economici, se va bene, dopo vent'anni.
Un tempo impensabile per i manager e l'arco di ben quattro legislature per un politico.
E se uno vuole i soldi, il potere, la fama e li vuole prima come fa?
E se uno sceglie la carriera politica esclusivamente per rendere un servigio a se stesso?
Mai visto, vero?
Non volevo parlare di politica, ma non ci sono riuscito.
La prossima volta, lo giuro, parlerò soltanto di libri.
Ma com'è difficile...
...
E i rimedi?
Beh, per quelli siamo già in ritardo.
C'è soltanto da tener duro e fare la farfalla brasiliana che batte le ali.
In attesa del ciclone.