3.3.11

Libri letti, alla rinfusa

Mi piacerebbe che i libri che leggo mi rimanessero in mente un po' di più.
Non nel senso di ricordare perfettamente frasi e descrizioni o di rammentare a menadito trama e intreccio, mi basterebbe ricordare con maggiore precisione e migliore acutezza le emozioni che i libri mi hanno creato.
Viceversa si tratta di una situazione piuttosto rara, regalatami da libri diversi per spunto, tema e intenzione - biografie, saggi, romanzi, pamphlet.
Sospetto che questo genere di ricordi sia appannaggio di una qualità intrinseca al libro, dovuta a una prerogativa che non ha molto a che vedere con le sue caratteristiche quanto piuttosto a qualcosa che ha a che fare al rapporto tra "me" e l'autore.
Un libro può colpirmi ed essere meglio ricordato se colgo un modo di accostare l'argomento che mi appartiene. Un tratto più netto che mi è familiare come potrebbe essere un approccio sottilmente divertito, un'ira sfumata in malinconia, un'ansia nel riflettere su se stesso e sulla propria esistenza. Non ho molta simpatia né riesco facilmente a ricordare i libri che - più o meno consciamente - mi appaiono come artefatti, nati per lusingare (e illudere) il lettore.
Dopo - e soltanto dopo - vengono altri elementi come la competenza specifica (nel caso di saggi), l'impianto della vicenda (se narrativa) o un'altra dozzina di elementi ritenuti importanti dal lettore.
Certo, gran parte dei libri pubblicati è fatto di un mix di astuzia e ingenuità, di calcolo e passione, di intenzione, premeditazione e casualità e ben pochi di essi risultano abbastanza definiti da poter essere ricordati, magari anche a lungo, ma ciò non toglie che sia possibile cogliere un gusto o un colore prevalente che rende più o meno gradita le lettura.
...
Permutation City di Greg Egan non è un libro nuovo.
Anzi.
Faceva parte della collana «Cyberpunkline», puri anni '90. L'editore è ShaKe, altro pezzo originale anni '90 - anche se tuttora operante sia pure a mezzo o un quarto di servizio.
Egan è autore con una pericolosa tendenza all'oscurità e non in un senso tolkeniano. L'oscurità di Egan è di natura puramente concettuale e deriva, temo, da un Q.I. che dev'essere più o meno i quadruplo del mio.
Ordinario australiano di matematica Egan non può evitare, anche se onestamente si sforza, di inserire qualche «teorema facilmente dimostrabile» nelle sue vicende e nelle sue descrizioni rendendo i suoi libri affascinanti ma anche mortali come un trattato di fisica stellare.
Tutto ciò è stato vero per Incandescence, pubblicato da Mondadori in Urania nel 2008, curioso racconto di formiche aliene e intelligenti che vivono su un pianeta satellite di un buco nero, ed è vero anche per Permutation, racconto di un'umanità futura - ma non troppo, dove alcuni individui particolarmente ricchi hanno avuto la possibilità di perpetuare se stessi in eterno in un universo virtuale che tuttavia, vista la necessità di potenza richiesta ai computer per ricreare un universo sensibile, comporta un ritardo rispetto alla vita reale di 1:16 Questo ovviamente comporta qualche problema imprevisto e almeno in parte imprevedibile, come la sostanziale impossibilità di chi si è riprodotto nella realtà virtuale di interagire con il mondo reale. La soluzione in apparenza più assurda (ma più affascinante) può essere quella di «separare» il mondo reale da quello virtuale, creando un complesso e definitivo metaverso destinato a durare più o meno in eterno. Ma anche questa soluzione si rivela ben presto carica di pericolosi risvolti.
Un romanzo ricco, potente e suggestivo, che non sembra aver sofferto della diffusa perdita di entusiasmo per la virtualità possibile. Basti pensare al malinconico destino di Second Life... Persino la proverbiale rigidità di Egan nel rappresentare i personaggi, sempre fatalmente schiacciati dalla magnipotenza dell'infodump, sembra meno nitida, lasciando che emergano caratteristiche personali e frammenti di una possibile storia personale.
Per rimanere nello stesso campo segnalo volentieri un'antologia uscita già da qualche mese e ormai temo sostanzialmente introvabile. Parlo di Pianeti dell'impossibile, Urania Mondadori Millemondi, curata da J. e K. Morrow, dove appaiono sedici racconti di autore europeo (continentale) scelti per conto della SFWA, l'Associazione degli scrittori di sf americana. Racconti di un livello più che discreto con alcuni acuti (il russo Lukjanenko, la finnica Siniselo, il tedesco Eschbach, il polacco Huberath, il danese Ribbeck) un capolavoro assoluto, Il pianeta muto della russa Elena Arsenieva - racconto dedicato a Efremov - e una segnalazione per il racconto di Evangelisti, autore che conosco molto poco (mai letto, lo ammetto) ma che se la cava più che bene con un racconto di ambientazione carceraria - Sepultura, come l'omonimo gruppo heavy metal - un po' gore nell'ambientazione ma di buona efficacia. Ahimé superflui i due racconti di autore francese. Non è xenofobia al contrario, ma semplice intolleranza, forse noia, per un modo di narrare sin troppo autocompiaciuto. Curiosa e memorabile una frase riportata nell'introduzione di Morrow che riporto volentieri: «Per un europeo cento chilometri sono tanta strada, per un americano cento anni sono tanto tempo...»
Cambio di registro e di paesaggio.
Rosa Matteucci, autrice di di Tutta mio padre, edito da Bompiani nel 2010, è una mia vecchia conoscenza, sia pure nei panni di «autore Adelphi». Assolutamente impagabile - da incontrollabile convulso di risa - Lourdes, un libro carico di un'ironia tanto intensa e gelidamente lunare da lasciare il lettore (felicemente) sconcertato. Principale difetto della Matteucci è la sua discontuinità, ovvero ciò che si può immaginare come la necessità di tirare il fiato tra un punngente ritratto o un allucinato quadro e l'altro. Matteucci - e questo può piacere o meno - dimostra un'attenzione scrupolosa fino all'eccesso nel tratteggiare caratteristiche e fissazioni di un personaggio o di un gruppo di personaggi, così deliziosamente pignola da finire per cancellare lo sfondo, uno sfondo che finisce spesso per scomparire completamente o diventare un fondale di cartone di interesse scarso per l'autore come per il lettore.
Spiegate queste poche cose su Rosa Matteucci posso affermare che questo suo Tutta mio padre è qualcosa di più e di diverso da un semplice e genialmente sarcastico racconto lungo. I rapporti tra una donna e suo padre sono difficili e di una complessità non facilmente risolvibile. E lo dico (anche) per esperienza personale (...). Il giudizio di una figlia verso il padre è, nel contempo, spietato e misericordioso, talvolta divertito o sarcastico, disperato o carico di rammarico, grandiosamente assurdo o rabbiosamente irridente. Tutti le facce di un cristallo così complesso che si riconoscono senza difficoltà nel libro della Matteucci, raccontate con gusto e intelligenza. Il suo io narrante - la figlia - racconta la storia del lento, fatale e maliconicamente spassoso crepuscolo della sua famiglia. C'è una sfumatura acida e amara nel suo narrare, un eccesso di confidenza che si volge in una rabbia oscura e mai dichiarata, un senso di delusione ormai acquietato ma non senza dolore, una considerazione fredda e scabra della propria attuale condizione. Un buon libro, senza dubbio, da leggere con attenzione, pronti a sorridere ma senza poter dimenticare la chiave amara del romanzo.
Due libri di storia, ora.
La resa di Roma di Giusto Traina (Editori Laterza) e La battaglia di Anghiari di Niccolò Capponi (Il Saggiatore).
Due libri dedicati a una battaglia fondamentale per la storia di quegli anni, la prima, avvenuta nel 53 a.C., che fermò l'avanzata di Roma in Oriente e la seconda che indirettamente fu la premessa necessaria alla nascita e alla fortuna del Rinascimento.
Almeno parzialmente deludente il primo mentre felicemente riuscito il secondo.
Il problema principale de La resa di Roma - come anche l'autore ammette in diversi momenti del suo libro - è la mancanza o la parzialità di fonti persiane coeve o successive a controbilanciare una storiografia romana ricca ma fatalmente parzialissima, non solo nel raccontare la battaglia e il suo esito ma anche nell'addossare a Marco Licinio Crasso la responsabilità di non aver saputo preparare la campagna, la cieca avidità già dimostrata nel saccheggio dei tesori della Siria e la sottovalutazione delle difficoltà connesse all'attacco a un popolo da secoli maestro di guerra.
Personalmente serbavo un ricordo vago ma sufficientemente netto del giudizio degli storici romani su Crasso: un ricco babbione, avido e sciocco, che superficialmente aveva condotto l'esercito romano a una grave sconfitta, un giudizio probabilmente ingeneroso che il libro di Traina è riuscito almeno in parte a modificare. Le esitazioni, i dubbi, i tentennamenti di Crasso in Siria, incerto se attaccare o meno i Parti sono state utilizzate nella pubblicista storica di autori come Livio, Plutarco, Cassio Dione per evidenziarne la sua vuota albagia e la sua rapacità soprattutto se contrapposta alla temibile potenza dell'Impero durante il quale essi scrivono, mentre a un esame più attento finiscono per emergere i motivi - tutt'altro che disprezzabili - della sua condotta. Non diverso il discorso per la sorte toccata alle spoglie mortali di Crasso che Livio dichiara indegnamente esposte alle intemperie e ai predatori, viceversa - probabilmente - semplicemente abbandonate agli animali necrofori secondo l'usanza zoroastriana.
Con tutto ciò - e questo non vuole minimamente essere un giudizio polemico - il libro di Traina spesso non è nulla di più di una buona esibizione di competenza bibliografica.
La battaglia di Anghiari è un ottimo esempio di come trovare un filo credibile , ragionevole e persino appassionante per presentare un evento militare non dei più importanti e sanguinosi – comunque ben lontano dalla tradizione voluta dal Machiavelli di «battaglia con un solo morto» – ma comunque decisamente importante nella situazione italiana della prima metà del 1400. Il ducato di Milano, guidato da Filippo Maria Visconti, era teso in quegli anni a raggiungere una situazione di predominio nell'Italia settentrionale e centrale, compito reso per nulla agevole dalla presenza di altre potenze italiane e straniere - La Serenissima, la Firenze prima comunale poi medicea, il Papato, l'Impero, il Regno di Napoli - altrettanto assorbite alla tutela dei propri interessi e in qualche caso, come nel caso di Venezia, all'espansione della propria area di influenza.
In un tempo di alleanze incerte e volubili, di capitani di ventura preoccupati in primo luogo della propria personale armata e in secondo luogo della possibilità di ritagliarsi un proprio personale principato, si muovono i personaggi di una complessa e contradditoria commedia dell'arte. In primo luogo l'acuto, infido, opportunista (e obeso) Duca Filippo Maria Visconti in compagnia dell'astuto Signore Lorenzo de'Medici e del suo nemico giurato, Rinaldo degli Albizzi, Papa Eugenio IV, il vescovo Giovanni Vitelleschi, l'imperatore Sigismondo del Lussemburgo, gli Aragone e gli Angiò, i Dogi Foscari e Mocenigo di Venezia e tutti i capitani - Enea Silvio Piccolomini, l'Attendolo, Il Gattamelata, Il Carmagnola, Braccio da Montone, solo per citarne alcuni - a movimentare un panorama politico e militare spesso incomprensibile per un lettore del XXI secolo. Meriti principali del libro: a) rendere comprensibile una situazione altrimenti complessa fino all'inafferrabilità, b) dare un significato a una battaglia «tra milanesi e fiorentini» che ai nostri giorni risulta qualcosa di assurdo, un evento improbabile che sta tra lo scontro da stadio e la baruffa condominiale, c) dare alla battaglia un significato risolutivo per lo sviluppo dell'arte fiorentina e dell'intero Rinascimento. Una lettura che consiglio volentieri, anche per la vivace prosa dell'autore.
Passando a tutt'altro veniamo a Divorzio all'islamica a Viale Marconi di Amara Lakhous, edizioni e/o. Un libro gradevole, divertente e sorprendente fin quasi al termine, con un finale davvero un po' troppo frettoloso. La vicenda narrata è quella di Christian Mazzari, siciliano di genitori tunisini nato a Mazara del Vallo e cresciuto in mezzo ai figli dei pescatori tunisini, capace di parlare l'arabo «come lingua madre» e dotato di un «fisionomia mediterranea». Collaboratore al tribunale di Palermo viene avvicinato da un ufficiale del SISMI che lo arruola per una missione antiterrorismo. Si tratta di tenere sotto controllo un gruppo di egiziani a Roma, sospettati di essere fiancheggiatori di Al Qaeda. Spacciandosi per un immigrato tunisino, Christian si infiltra nella comunità degli immigrati musulmani avendo così modo di raccontare ai lettori il loro stile di vita - o più correttamente di «sopravvivenza»- le abitudini, il modo di vedere se stessi e il loro lavoro, di immaginare il proprio futuro e di interagire con gli italiani e gli altri immigrati.
A fare da contrappunto al racconto di «Issa», pseudonimo scelto da Christian, il racconto di Safia - italianizzato in Sofia - parrucchiera abusiva e moglie di un immigrato egiziano molto ligio a una lettura particolarmente integralista del Corano. Fatalmente Issa e Sofia intorno ai tre quarti del romanzo entreranno in contatto e giungeranno (probabilmente) a coronare il loro sogno d'amore nell'ultima confusa parte del libro.
Romanzo che vien voglia di definire «più furbo che bello», Divorzio all'islamica è comunque una lettura che merita. Un po' per conoscere il modo di vedere la realtà quotidiana di milioni di immigrati musulmani, un po' per capire come loro ci vedono e ci giudicano. Può sembrare strano, ma consiglio a chi vorrà leggerlo di leggere prima di tutto il mediocre finale, ovvero le ultime 4-5 pagine. Dopodiché sarà decisamente piacevole leggerne il resto, senza fretta né ansie.
Ogni promessa di Andrea Bajani è un libro che non recensirò per alcuni buoni motivi. Primo tra tutti il fatto che conosco piuttosto bene l'autore (e finora siamo stati un buoni rapporti... ) e in secondo luogo perché mi sono impiantato ormai da mesi intorno a pagina cento e, nonostante numerosi tentativi, da lì non riesco a proseguire.
«Noia infame?»
Lo so, questa è la prima cosa che viene in mente leggendo di qualcuno che non riesce a finire un libro. Io stesso giungerei alla stessa conclusione se si parlasse di qualcos'altro. Ma non è una conclusione che posso sottoscrivere. Posso fare altre ipotesi. Che, per esempio, la trama del libro sia talmente fitta e sottile da scoraggiare un rapporto prolungato con esso. O che lo sguardo dell'autore sia una specie di succhiello che da ogni minimo gesto riesce a estrarre un mondo completo di emozioni, ricordi, visioni, tanto che un povero lettore sia chiamato costantemente - mentre procede con la lettura - a dover scalare montagne narrative via via più alte e sempre meno praticabili. O, ancora, che lo sguardo del lettore si perda costantemente nel tentare di mettere a fuoco vicende che hanno un andamento incostante, riflessivo, troppo denso. O, infine, che l'intero libro sia stato concepito e scritto da qualcuno che - non facendo parte della specie umana - avverta la costante necessità di rendere efficacemente non soltanto ogni gesto e ogni parola in scena ma anche ciò che ordinariamente non viene espresso né percepito.
In sostanza ho la sensazione di aver urtato in un libro che non sono riuscito - e presumibilmente non riuscirò mai - a far mio. Non escludo la possibilità di finirlo, naturalmente, ma per il momento sono fermo. Più o meno come un viaggiatore sulla Via della Seta davanti all'Oxo in piena primaverile. Immobile, anche se indubbiamente stupito.
Un salto laterale, ora, per un libro che si potrebbe, probabilmente, definire un Urban Fantasy. O un romanzo di fantascienza decisamente fuori squadra. Parlo de La torre del tempo di Sergej Lukjanenko, edizione originale russa 2005. Un uomo ritorna a casa dal lavoro e nel suo appartamento vive ora una donna a lui sconosciuta. Non solo: l'arredamento della casa è radicalmente mutato e nulla lascia intuire che quell'appartamento fino a poco prima sia stato suo. In breve tempo anche i suoi amici e persino i suoi genitori lo eliminano dalla propria vita, dimenticando e rimuovendo la sua esistenza e tutte le esperienze comuni che l'hanno riguardato. Quando la sua incredulità, la confusione e il suo terrore sono giunti al massimo si fa vivo un emissario di una sconosciuta potenza che gli propone di diventare un funzionale...
Un romanzo divertente e decisamente gradevole, capace di conciliare le piccole nevrosi quotidiane di un single trentenne con stupefacenti avventure pluridimensionali, senza dimenticare l'esistenza - una costante per un protagonista russo ex-sovietico - di bizzarre entità ultraburocratiche e metapolitiche che dominano i rapporti della nostra Terra con tutte le altre possibili Terre.
Romanzo in teoria rivolto a un pubblico di teen-ager (o così perlomeno ha deciso Mondadori per l'edizione italiana) ma in realtà ricco di riferimenti letterari che divertono non poco il lettore, soprattutto, ovviamente, se non eccessivamente giovane. Ma evidentemente la sf non dev'essere presentata come tale al lettore, pena il presunto clamoroso fiasco del libro e dell'autore. Meglio, piuttosto, presentarlo come romanzo giovanile, anche se con qualche passaggio sexy e ricco di citazioni letterarie...
Rimanendo nel campo del fantascientifico dell'est europeo lo stupendo La Voce del Padrone di Stanislaw Lem. Un romanzo scritto in prima da un geniale matematico che, tuttavia, pur avendo partecipato al Progetto, è costretto ad ammettere il sostanziale fallimento nel tentativo di comprensione dell'enigmatico messaggio giunto dalle stelle. Per giungere a questa conclusione - già preventivamente ammessa all'inizio della sua lunga confessione - il protagonista racconta dei numerosi e vani tentativi di giungere a un'interpretazione del messaggio alieno e degli assurdi e incomprensibili biofatti nati dall'interpretazione parziale di esso. Narra degli scienziati coinvolti nel Progetto, delle loro debolezze e meschinità come delle interminabili incomprensioni ed equivoci che li contrappongono. Racconta dei tentativi di creare nuove e temibili armi interpretando parti del messaggio e del maliconico fallimento del progetto. Ancora una volta, come accade in Solaris, l'intelligenza umana si mostra sostanzialmente impotente e incapace di comprendere le dimensioni, il senso e le intenzioni di altre creature.

...L'uomo è riuscito a staccarsi, a ricordare, a compatire gli altri, a immaginare gli stati d'animo e i sentimenti... cosa per fortuna non vera. In questi tentativi di pseudoimmedesimazione e di trasfert riusciamo a intravedere in modo vago e imperfetto solo noi stessi. [...] Siamo come lumache, attaccate ognuna alla propria foglia.

Caccia al Pianeta X di Govert Schilling, Springer editore è il racconto del lungo rapporto tra i planetologi e la fascia dei pianetini ultranettuniani, che ha avuto come sua più recente conseguenza il declassamento del pianeta Plutone - in compagnia del suo satellite Caronte - da pianeta maggiore del Sistema Solare a pianetino in compagnia di Eris, Quaoar, Sedna, Santa e altri 150 piccoli pianeti della Fascia di Kujper, limite estremo del sistema. Interessante notare che il brusco - secondo alcuni brutale - declassamento di Plutone nasce in ultima analisi dalla ricerca di un pianeta extranettuniano (il pianeta X) che potesse spiegare le perturbazioni orbitale dell'ultimo dei maggiori pianeti solari. La ricerca del pianeta X e in secondo luogo della stella Nemesi, possibile responsabile della serie di estinzioni di massa che hanno segnato la storia della Terra, è il filo rosso che unisce la lunga e vivace serie di ritratti di planetologi via via allineati nel libro. Come accade molto spesso nei libri di argomento scientifico il volume si chiude rimandando al futuro eventuali conclusioni. La ricerca di nuovi pianeti - sia extrasolari che solari - è tuttora in pieno svolgimento e nuove scoperte sono possibili letteralmente ogni giorno.
Ancora tre libri. Cercherò di essere più veloce.
Quando Dio morì di Nicola Somenzi è uno dei romanzi scelti nell'ambito del progetto Alga.
Buono, anzi ottimo, l'attacco – una vasta area dell'Europa e dell'Asia è coperta da uno strato di nubi che coprono costantemente il cielo – e una vicenda che cresce gradualmente aumentando il peso dei nodi da sciogliere. Alla fine, com'è inevitabile, lo scioglimento si rivela debole e cervellotico, dando a tutta la vicenda una coloritura innaturale e sottilmente assurda. Ma tanto di cappello all'autore per essere riuscito a farsi leggere o leggiucchiare fino alla fine. Da notare lo stile curioso del racconto che può piacere o meno - a me non è piaciuto, ma io sono un pallosissimo e un po' formale lettore di fantastico - ma che impone al lettore una maggiore vicinanza con il protagonista, anzi un'inattesa confidenza. Uno stile che appare mediato dal linguaggio dei messaggi on line o dei blog più disinvolti e autodiretti. Personalmente sono convinto che la lingua sincopata e i modi rapidi siano perfetti per una comunicazione veloce e per presentare se stessi in modo informale, ho - viceversa - qualche grosso dubbio sulla riuscita in campo narativo. Ma rimango disponibile a discuterne.
Meriterebbe probabilmente più spazio I salici ciechi e la donna addormentata di Murakami Haruki. Tanto più trattandosi di un'antologia. Ma siamo alla fine dello spazio (ragionevole) di un post e qualche taglio è necessario.
«Sì, ma perché proprio a Murakami?»
Mah, probabilmente perché questa antologia mi è parsa un po' (troppo) diseguale e non del tutto riuscita. Vagamente ricucita come un collected paper messo insieme nonostante l'autore sia ancora vivo. Un'antologia è una strana creatura. Basta un racconto non del tutto riuscito per proiettare un'ombra su tutto il lavoro, lasciando un'impressione di incompiuto, di goffo. O forse dovrei semplicemente dire che il Murakami breve di alcuni di questi racconti mi è apparso talvolta inuguale, incerto, vago. In ogni caso ho talvolta avvertito la distanza profonda di Norwegian Wood o de L'uccello che girava le viti del mondo. Posso sbagliarmi, ovviamente, e di non pochi di questi racconti potrei dirmi soddisfatto. Probabile che avrei dovuto, semplicemente, leggerne pochi alla volta e non infilarmene ventiquattro in poco tempo. In ogni caso questa non è né vuole essere una recensione. Al massimo un breve consiglio: non leggete Murakami affrettatamente!
La balena del cielo di Luca Masali non è esattamente una novità. Pubblicato nel 2008 da Sironi l'ho letto tempo fa ma dimenticandomi di inserirlo tra i libri recensibili.
Sono tre racconti di lunghezza decrescente, ambientato il primo sul lago di Garda, nel 1927, il secondo a fianco di Nobile sul dirigibile Italia nel 1928, il terzo a Guernica nell'aprile del 1937. Protagonista ancora una volta il capitano triestino Matteo Campini, ex-aviatore dell'Imperial-regia aeronautica austriaca divenuto italiano soltanto alla fine della Prima Guerra Mondiale. L'antologia è anche la terza e ultima parte delle gesta del capitano Campini. Curioso tipo di fantastico, quello di Masali, accortamente ritagliato nelle pagine meno note di storie peraltro famose. Delle vicende dei suoi personaggi, vissuti nella prima metà del secolo scorso, non rimane - non casualmente - nessuna traccia. Una storia «irregolare», curiosamente simile ma qualitativamente molto superiore a certi episodi di x-files, perfetta per personaggi abbozzati con cura e humour. Una produzione non abbondante, quella di Masali, e per certi versi assai poco italiana. Un pregio, visti i tempi che corrono.
...
Fine, ringrazio di cuore tutti coloro che hanno letto questa interminabile sbobba fino all'ultima riga. Non sarà l'ultima volta che abuserò della vostra pazienza, presentandovi libri anche non più disponibili o scarsamente reperibili. D'altro canto, non sono qui per vendere, come probabilmente si sarà capito...

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