31.7.12

Editoria senza idee

«Il self publishing potrebbe rivelarsi, sul medio termine, una colossale fregatura. E il digitale non va pensato come una ricaduta della carta stampata, ma come un universo autonomo.»
Also sprach Michele Rossi, responsabile narrativa della Rizzoli, cercando, nel corso di un'intervista pubblicata su La Stampa del 30.07.2012. Un'intervista da un certo punto di vista assolutamente esemplare. Interrogato sullo stato contemporaneo della narrativa in Italia, Michele Rossi, riesce ad autocontraddirsi quasi ad ogni capoverso: «Noi dobbiamo fare libri diversi: di alta letteratura oppure più commerciali, ma devono essere appunto libri di autori con un profilo autonomo» e, contemporaneamente: «Ma la scommessa è puntare sul digitale per autori che potrebbero esserne particolarmente valorizzati, non per qualsiasi libro. Anche il digitale va, appunto, governato»
In sostanza: siamo disponibili a puntare su autori con una personalità narrativa ben definita, ma anche su autori che ci facciano risparmiare sulla tiratura e sulla distribuzione e, detto di passata, anche sui libroidi, ovvero libri di breve vita e valore culturale tendente a zero. 
Curioso, vi sareste aspettati qualcosa di diverso da un membro del personale direttivo Rizzoli? Forse una frase facilmente interpretabile come: «Mi piacerebbe fare libri che si vendono, di autori noti e apprezzati come di perfetti nessuno a costo quasi zero, come pure di completi ignoranti che hanno però di buono il fatto di essere già noti per qualsiasi altro motivo».  No, un dirigente serio ha la capacità di torcere le parole e le frasi in modo da non affermare ciò che sta affermando.  Di muovere la carte sul tavolo a una velocità inattesa e inafferrabile per chi li legge. 
Michele Rossi accenna anche alla crisi, «La “tempesta perfetta” che si è abbattuta sul mercato non permette tentennamenti e mezze tinte [...] Non sono per la decrescita, sarebbe disastrosa. Ma pubblicare qualche libro in meno per poterli seguire molto bene tutti, questo sì.» e a una cifra totale del mercato librario, «il miliardo e quattro[centomila di euro] dell’editoria italiana nel suo insieme» che, se comparata con i 3.000 mld di lire [1] del fatturato totale librario di qualche anno fa, dà le dimensioni della profondissima crisi nel quale il mercato si trova. 
Silvia Avallone

Ma, in sostanza, che cosa ci dice Michele Rossi? 
Beh, non molto. E molto di ciò che ci dice gli esce involontariamente, come un gaffeur inopportunamente invitato al té di Madame. Ci dice che Rizzoli è contentissima di aver cuccato una meraviglia come Silvia Avallone [2] ma che comunque non si è liberata dei complessi verso la Grande Mondadori; che il quadro del settore è disperato e disperante e che gli e-book possono essere una risorsa, soprattutto perché fanno risparmiare sulla carta, sulla tipografia e sulla distribuzione; che gli autori costano e che i lettori italiani: A) non sono abbastanza fessi da credere a tutte le panzane sparate dagli editori, ma anche B) troppo fessi per leggere autori rispettabili come Walter Siti, preferendogli un autore di impedimenta come Marco Presta (Un calcio in bocca fa miracoli), della scuderia Einaudi, gruppo Mondadori. Che Rizzoli, a ogni buon conto, ridurrà i titoli in uscita, che il buon André Schiffrin [3] continua allegramente a infestare gli incubi dei grossi editori e che, infine, Rizzoli punterà ancora una volta su autori alla Ken Follett per tentare di rimanere sul mercato.  
André Schiffrin

Una intervista confusa e cortigiana - ovviamente, dal momento che il gruppo Rizzoli è anche proprietario de La Stampa - e che non aggiunge nulla, né come riflessione né come analisi, alla situazione dell'editoria italiana. Al massimo regala - paradossalmente, ricordando la frase citata in apertura - una consolazione agli autori self-publishing, ricordando che il signor Rossi ha esordito in narrativa con un editore «a pagamento» come Pequod. 
Nulla di nulla sulle tendenze e sull'andamento reale del mercato librario italiano, se non una serie di consuete formule sull'editoria che non è più tale e sulla scomparsa, ormai cronologicamente equiparabile all'estinzione dei dinosauri, degli editori-padroni. 
In qualità di ex-libraio posso al massimo apprezzare la volontà, seppure mai apertamente enunciata, di ridurre le novità in uscita e deprecare le finte interviste. Ma, a parte questo, nulla. Nulla di nulla.   

[1] 3.000 mld di lire = 1.549 mln di euro

[2] autrice di Acciaio, premio Campiello e seconda classificata al Premio Strega.
[3] autore di Editoria senza editori, Bollati Boringhieri, 2000

26.7.12

Perdendo tempo


Una sensazione non così rara, di questi tempi. 
Ma che merita qualche piccola riflessione ad alta voce. 
Sono disoccupato, è vero, ma questo non significa che non abbia nulla da fare. Anzi. La disoccupazione, da questo punto di vista, si è rivelata una modesta fortuna. È impressionante la quantità di cose – letture rimandate, aggiornamenti dimenticati, amicizie trascurate, compiti tralasciati – che ho scoperto di aver lasciato indietro in questi ultimi anni. Gli ultimi due, segnatamente, nei quali tutto ciò che mi passava vicino veniva deviato e frantumato, come se io fossi diventato un buco nero ambulante e la CS il mio personale limite di Schwarzschild.  Non avevo tempo per altro, non avevo nemmeno fantasie, progetti, desideri o sogni che non riguardassero la «mia» libreria. Libreria che vedevo smagrire, ridursi, agonizzare nonostante tutti i miei sforzi. Com'è finita lo sapete, e non è il caso di ritornarci sopra. 
Ma a quanto vedo e per quanto ne so, la situazione non è minimamente migliorata. 
Anzi.
In questi ultimi mesi ho incontrato diversi colleghi, parlato con piccoli e grandi editori, scambiato idee e sensazioni con rappresentanti e redattori: la sensazione generale si riduce a una diffusa e inestirpatibile tetraggine. Infelicità senza desideri, direbbe Peter Handke, il genere di stato d'animo di chi si prova a bordo di una nave senza rotta e senza destinazione, in attesa dell'inevitabile naufragio. Una situazione, e non è del tutto inutile notarlo, che sembra colpire soprattutto gli operatori del settore editoriale italiani, schiacciati tra il nuovo che avanza – il libro elettronico, il tablet, i libri in omaggio con i giornali, la diffusione via internet di novità e di classici – e il vecchio che non muore, e che si ostina a riproporre sconti eccessivi su prezzi artificiosamente gonfiati e libercoli mal concepiti e mal tradotti per un pubblico residuale.  
«Le donne sono il futuro del libro», si legge, nella speranza che corteggiare le ultime lettrici con libri più o meno eroticamente stimolanti risulti salvifico per l'intero settore.
Onestamente, quando anni fa scrivevo sui vecchi numeri di LN che il settore editoriale libraio rischiava non poco con la chiusura delle librerie di prossimità, non mi sarei aspettato una situazione che così rapidamente inclina verso lo sfascio.
Ma forse, e questa è un'altra possibilità, è Torino a essere pesantemente in crisi. In profonda crisi economica, indebitata in maniera catastrofica, abbandonata da medie e grandi imprese, senza più editori di una certa dimensione – Einaudi è semplicemente un nome – sopravvive temporaneamente sperando, ma senza più crederci, in un colpo di coda della FIAT nella quale la città si è, volente o nolente, immedesimata. Basta pensare a tutti i nomi che non significano più nulla, qui a Torino. Boringhieri, Olivetti, Lancia, UTET, la già citata Einaudi... Un governo locale impotente e strangolato dai debiti e uno regionale paurosamente retrivo e stupidamente reazionario, che – in attesa che il Piemonte si accorga di aver eletto una sessantina di zombies – ti scrive a casa per sostenere le iniziative di spaventosi casi psichici come i membri del Movimento per la Vita. 
Roba che il Ministro Solaro della Margarita era un illuminista, al confronto. 
È tutta questa situazione a regalarmi la sottile, persistente sensazione di perdere tempo. Si «perde tempo» quando si avrebbe di meglio da fare e non lo si fa , ma si perde tempo anche quando non si sa che cosa fare, si esita, si rinuncia. 
E si perde tempo aspettando la bufera, fissando il cielo senza nulla da fare.  



24.7.12

Morire in Africa


Morire in Africa è un racconto importante. Per me. 
L'ho pubblicato sotto pseudonimo su Fata Morgana 4, dicembre 2001, ed è nato da un ricordo personale. Un amico di mio padre, partito per l'Africa, sopravvissuto rocambolescamente alla guerra civile in Congo e ammalatosi di silicosi. Ritornato a morire in Italia e a lungo sopravvissuto, senza più desideri né speranze. Alto, abbronzato, gentile e generoso, gli occhi protetti o nascosti da occhiali da sole a specchio, un fazzoletto bianco dove tossiva fino a sfinirsi. Aveva scelto di morire in Africa. Il suo nome non era né Luigi né Amerigo, me lo ricordo. La sua morte, troppo a lungo attesa, è alla fine giunta. Ma tardi, troppo tardi. 




TAC

È da almeno due giorni, quarantotto ore mal contate, che non sente più nulla.
Non ha quasi mai dormito, a meno di non voler chiamare dormire un torpore tormentoso, nel quale gli oggetti della piccola stanza non riescono a scomparire completamente.
Fuori è divenuto impossibile guardare: lo sa dopo l’ultima volta che ha scostato gli scuri ed ha visto. Il sole immobile nel cielo, le nubi ferme come una guarnigione dimenticata, in attesa di un ultimo assalto che non verrà mai.

L’aria sa di caffè riscaldato, di un bucato che non ha terminato di asciugarsi, di polvere, di un residuo di odore di cottura rimasto a stagnare nell’aria anche dopo che, quasi tre giorni prima, ha chiuso la porta della cucina.
Il silenzio svuota gli odori, li frantuma e ricombina in combinazioni nauseanti o sorprendenti. Seduto ritto alla poltrona ha cessato di ricevere segnali dalla periferia del corpo. Vede la forma delle gambe coperte dal plaid a motivi gialli e azzurri (sempre che ci si possa fidare dello spettro dei colori di quel sole inchiodato sull’alba) ma non vede né sente i piedi, i polpacci, le caviglie. Qualcosa o qualcuno potrebbe avergli tagliato le gambe appena sotto le ginocchia e se ne accorgerebbe soltanto alzandosi.

Ma per andare dove? Per attraversare il lungo corridoio - ci sono cumuli di polvere grigia negli angoli, un disegno di stucco in alto, a incorniciare il soffitto - con le sette finestre dagli scuri aperti che guardano all’altra metà del cielo? Alle nubi d’amianto che pesano sull’aria? Alle lontane colline vuote, del colore del mattoni umidi?
Non si alzerà, per il momento. Starà seduto ad attendere. Attendere. Attendere ancora.
Con la punta delle dita accarezza senza sosta una piccola scultura d’avorio. L’oggetto si lascia scorrere, attraversare senza rivelare il proprio disegno. Sospeso tra il liquido ed il solido, tiepido e fresco non esaurisce mai la capacità dei suoi polpastrelli di percepirlo. La scultura raffigura un negro - adesso bisogna dire nero ma una volta non era così - labbra fortemente rilevate, una cresta di capelli sottilmente incisi, una forma appuntita rilevata sulla parte superiore della coscia: un lungo coltello o una specie di daga. Tiene le braccia incrociate sul petto e ha gli occhi socchiusi, obliqui con la punta superiore che si confonde con le leggere incisioni che rappresentano i capelli.
Una scultura comune, un ricordo per turisti acquistato in aeroporto. Per poter dimostrare ai genitori e agli amici che si è effettivamente stati in Africa. A trovare un vecchio amico che non tornerà mai indietro, un vecchio amico sorpreso di vederlo, imbarazzato della sua casa umida e trascurata.
Come si chiamava? Amerigo? Luigi? E il cognome? Branda? Branca?
Un diaframma lo separa da quei ricordi. Può articolare le parole per dirli, riferirli, ma non sente forme né luci. Neppure il viso ricorda. Ha qualcosa in comune con il negro d’avorio. I capelli fini, pettinati all’indietro, tagliati corti. L’ha conosciuto da bambino e lui (Amerigo? Luigi?) era già grande. È rimasto sempre uguale, si è solo rattrappito, ridotto. La pelle gli è diventata grigia, i gesti più raccolti, appena accennati, che non riuscivano a oltrepassare la propria ombra.

Il polpastrello del pollice scivola dondolando sulla scultura. Se non la osserva non sa quale parte sta toccando. Va bene così. Va bene così.
Dalle cantine non viene nessun rumore. Addormentato e morto. Da nessuna parte vengono rumori. Niente canto d’uccelli, nessuna motocicletta lontana ad attraversare all’orizzonte il grande semicerchio rossastro del sole nascente. Neppure il rumore inaudibile degli alberi che crescono, dell’erba che sospira.
Amerigo o Luigi (nessuno dei due è il nome giusto, lo sa benissimo) era fatto per l’aria aperta, per il sole che batte sulla fronte.
Per anni hanno lavorato insieme - lui e Luigi o Amerigo - nel cubo grigio degli uffici. Vestiti di scuro, a due scrivanie di distanza. Con la lunga striscia di carta espulsa dalla calcolatrice che si allungava fino al verde del linoleum. Guardavano dalla finestra della piccola stanza dov’era la macchina dei caffè. Il cortile di un grigio più scuro dove passavano i carrelli gialli e dal quale, nella bella stagione, provenivano frammenti di canti o schegge di urla.
No. Amerigo o Luigi è stato lì per pochi mesi. Non sopportava di restare chiuso.
Io non voglio fare la tua vita, i giorni vestiti di grigio, la cravatta a righe sottili o a piccoli disegni. Ha lasciato il posto sicuro per un’avventura da geometra in Africa. Gli ha mandato cartoline e lunghe lettere. Le foto di bambine mulatte e della moglie di colore. Più alta di lui, che guardava nell’obiettivo con un’aria di sfida che forse nascondeva paura. La macchina fotografica che ruba l’anima. No, lei era una ragazza di buona famiglia. Aveva studiato in Inghilterra. Ma forse qualcosa della sua anima tribale. Non glielo aveva mai scritto ma si erano lasciati, avevano divorziato pochi anni dopo il matrimonio. Infedeltà. Anni dopo nella sua casa di separato aveva trovato mutande da donna sporche di mestruo sotto il letto, lenzuola grigie, tazze non lavate. Luigi o Amerigo scherzava e beveva il pessimo whisky che facevano lì. Aveva preso una malattia, una malattia inconfessabile.

Luigi o Amerigo che era invecchiato improvvisamente. Con le foto di un’Africa che non avrebbe mai visto, con i documentari proibiti, quelli in bianco e nero con negre che agitavano il culo e le tette. Aveva un amico in RAI che glieli aveva duplicati. L’Africa, il posto dove finalmente avrebbe potuto essere se stesso.
Silenzio. Ci sono silenzi diversi. Uno è fatto di possibilità, un altro di attesa, un altro ancora di delusione, umiliazione, stanchezza. Questo è fatto di vuoto. Batte le mani. Il rumore si gonfia per un istante e scompare subito inghiottito dall’aria. Non si sarebbe stupito di vedere le proprie mani incrinarsi e sgretolarsi come quelle di una statua di gesso. L’immagine è vivissima per un istante, tanto intensa che si guarda, si tocca, risale con le dita lungo il braccio incredulo. Per il momento non è accaduto.

TAC

La vibrazione questa volta non lo coglie di sorpresa. Sale da pavimento, fa ondeggiare i muri, gli attraversa il corpo. È piacevole, come la carezza di un vibratore sulla schiena.
Parte dalle cantine dove lui attende senza riposare, paralizzato nel tempo.
Luigi o Amerigo gli ha telefonato una settimana prima. Sono morto, ma non riesco a
Cosa intendi dire. L’altro parla staccando le parole dal palato una ad una con lunghissime strisce grigie tra una parola e l’altra.
N o n r i e s c o a
N o n r i e s c o a
Dove sei
In Africa. A casa mia. Non ci sono più donne. Sono morto / quasi del tutto / quasi
Vengo
La porta è aperta. Mi trovi sicuramente.

L’ha trovato. Più magro, sorrideva ancora, distrutto da un tumore ai polmoni. Ha lavorato nelle miniere. Per anni, mentre lui riavvolgeva i nastri di carta della calcolatrice per riutilizzarli dal lato ancora bianco.

Vedi ho smesso di respirare ma non sono morto. Ho smesso di mangiare, di bere e non sono morto. Sto qui, il tempo mi ha dimenticato.
Non dorme, non chiude neppure gli occhi. Avessero ancora la macchina del caffè, i piccoli bicchieri di carta con il cucchiaino di plastica bianca. Due parole sul tempo che non migliora, sul calcio che da anni non li interessa più, sulla politica che è tutto un teatro, sulla loro amicizia divenuta troppo ingombrante per essere accantonata.
Gli scriveva: la mia moglie mi fa paura. La lego con corde bianche per amarla, mi morde le spalle fino al sangue. Dopo non ci parliamo per giorni, invisibili uno all’altra.
Gli scriveva: qui il giorno e la notte hanno la stessa lunghezza, gli africani mi fanno paura quando parlano ma ancora di più quando tacciono. Quando tacciono e si allontanano mi sembra che con loro se ne vada via il tempo e la realtà. Mi sento incerto, indefinito, come un disegno mal fatto su un foglio.
Gli scriveva: non mi piacciono le mie figlie. Hanno occhi da cane e mani troppo grandi. Ridono quando parlo e si nascondono.
Gli scriveva: se penso di dover morire mi sento meglio, se penso che finirà, respiro
Gli scriveva: alle volte penso che il sole non tornerà o che non verrà mai sera. Alle volte penso che il tempo debba smettere di rotolare.

Due scrivanie davanti. Sposta i fogli da una vaschetta blu ad una vaschetta rossa. Amerigo o Luigi che accende una sigaretta e la dimentica nel portacenere. Nel terzo cassetto in basso della scrivania - quello con la chiave - tiene le riviste. Solo donne dalla pelle nera legate con lunghe corde bianche, decine, centinaia, per pagine e pagine. Gliele ha mostrate: lo annoiano.
L’Africa è il tempo fermo, un cielo traforato di nuvole, un sole troppo grande e rosso, donne nere come bambine con le quali giocare. Delle quali ha terrore.
Amerigo o Luigi adorava fischiare e lo sapeva fare alla perfezione. Sapeva imitare l’uccellino del segnale radio RAI. Ore tredici e trenta, o diciotto o undici, aspettavi di udire dopo. Adesso non può più, deve decidere quanta aria far entrare attraverso la bocca, esattamente come se bevesse. Aria che non serve a nulla, che non lo può modificare.

Il sole tagliato a metà dall’orizzonte, rosicchiato dal profilo degli alberi lontani. L’ingresso delle miniere, le maestranze di colore, l’ingegnere che viene dal Lussemburgo ma parla solo tedesco, l’operaio anziano, nero come legno scurito dal fuoco, che evita di guardarlo in faccia. Aria piena dell’odore di uomini, di fatica, di sudore, di paura.
È tutto vero, tutto scritto: gli ha detto Amerigo o Luigi.
È vero di mia moglie, delle puttane nere, della casa con il patio, del pappagallo malato, dell’erba grassa e lucida bagnata di pioggia.

Morire in Africa, quella che solo loro conoscono.
Attende, attende ancora. Fino a quando non si spegnerà anche l’ultima scintilla e Amerigo o Luigi finalmente riceverà la morte. Lo aspetta come l’ha aspettato tutta la vita, quando l’ha incontrato da bambino e poi da adulto ed ora da vecchio. Lui che forse non ha davvero un nome ma che lo ha sempre accompagnato, il vero amico, l’uomo che rompeva e si ribellava, che fuggiva e non si abituava, che sognava questo mezzo sole e le nuvole di zinco che avvolgono la pioggia.

TAC

22.7.12

West is where all days shall someday end [1]


Musica anni '70. Ovviamente, vista la mia età
Musica dell'allora leggendaria Charisma Label dall'etichetta sugli LP con il Cappellaio Matto di Alice nel paese delle meraviglie. 
Musica dei Genesis, degli Audience, dei Van Der Graaf Generator. Musica spesso eccessiva, barocca, sperimentale e grandiosa, spesso legata a temi fantascientifici o gotici. È il caso di ricordare qui album come The House on the Hill degli Audience o Foxtrot dei Genesis? Una musica che ha segnato i miei anni '70, ascoltata su una valigetta-stereo dei miei che macinava i dischi come la macina di un mulino, tanto è vero che ho dovuto in seguito ricomprarmeli o scaricarli via internet. 
...
Pawn Hearts dei VDGG è stato uno dei dischi più volentieri grattugiati sullo stereo dei miei. Per me all'epoca assurdamente e golosamente sperimentale, cantato dalla voce insieme stridula e profonda di Peter Hammil e dai fischi, muggiti, belati e urla del doppio sassofono di David Jackson. Dei pezzi dell'album Man-Erg  è quello che mi è rimasto più a lungo nella memoria, dall'intro fatto di due accordi magicamente sospesi al breve inciso sabbioso e violento. Un'ottima colonna sonora per un film di sf che nessuno ha mai girato ma che, in fondo, non si può escludere. 
Da ascoltare con le casse sparate al massimo. 


N.B. Dopo questo video mi prendo un po' di vacanze "musicali" e ritornerò con altri brani a settembre. In montagna, come forse si sarà capito, il pc non arriva a entrare in internet e quindi... A riascoltarci.

[1] tratto dal brano Refugees dei VDGG.

20.7.12

Novità on line


Uno dei tanti motivi per i quali mi sono trovato senza lavoro è la crescita e la diffusione di strumenti alternativi alla diffusione del libro cartaceo. Io stesso, come si capirà dando un'occhiata in alto a sinistra di questo blog, mi sono avvalso di questo genere di strumenti, pubblicando tre e-book e numerosi racconti su queste pagine. 
Ho fatto bene? Ho fatto male? Difficile da stabilire. Sicuramente non ho guadagnato un picco e forse ho fornito a qualcuno un'occasione per ridere delle pietose manie di un povero carneade. Ma mi consolo scoprendo che anche autori più noti e più capaci fanno ricorso all'autopubblicazione, saltando a piè pari editori e distributori, offrendosi per così dire "nudi" ai lettori. 
Non è una novità, siamo d'accordo, e sono tanti gli autori inglesi e americani che fanno uso di questo genere di rapporto diretto con i propri lettori. Motivo di più, quindi, per insistere e proporre le proprie opere a titolo gratuito o versando un pagamento molto modesto.
...
Consolata Lanza è una mia ottima amica, oltre che essere una scrittrice originale, intelligente, deliziosamente perfida e sempre sorprendente. Ha pubblicato diversi libri in formato cartaceo con Filema e Avagliano e ha collaborato e collabora con LN-LibriNuovi out-of-print. Con noi di CS_libri ha pubblicato l'antologia Lei coltiva fiori bianchi e diversi racconti nelle raccolte annuali di Fata Morgana e nella collana ALIA. Adesso avete l'occasione di leggerne un buon numero, raccolti in un'antologia elettronica dal titolo appetitoso: Racconti fantastici e dal margine, spendendo una cifra assolutamente irrilevante: $ 1,09. 
Non vi pare il caso di scaricarlo?
...
Approfitto di questa parentesi autoriale per segnalare un racconto di Cecilia Spaziani, pubblicato dall'ottima Lady Simmons nel suo blog: Simmons CottageLeggerlo non costa nulla - se non qualche momento del vostro tempo - e si tratta di un buon racconto, con un'ambientazione decisamente originale. Il tutto può essere un'occasione anche per fare un salto sul fotoblog di Lady Simmons, non ve ne pentirete.
...
«Eccoti qui, a suonare il violino per i tuoi amici... »
Lo so, lo so. Ma non si tratta di una sviolinata ma di un parere. Un parere affettuoso, ma sempre un parere. 
«Sai che parere...»
Beh, non obbligo mica nessuno a fare alcunchè. "Se avete voglia potete anche...", non "andate subito se ci tenete alla pelle di vostro nonno".
«E se poi al nonno non ci tengono?»
Lascia perdere, dai.

In chiusura riporto il testo originale della presentazione di Consolata, uscito sul suo blog:

Cari amici, ho pubblicato su Amazon una raccolta di racconti sotto forma di ebook Racconti fantastici e del margine . Sono quattordici storie, di cui undici effettivamente fantastiche e tre, appunto, situabili al margine della realtà. Molte sono ambientate a Torino, dove il fantastico salta fuori nei luoghi più quotidiani e familiari, quelli che conosciamo tutti: la Rinascente, la Mole Antonelliana, il Museo Egizio, Porta Nuova, i Murazzi. Sono mummie e apparizioni mariane, mostri e topi innamorati, fantasmi ferrovieri e rapaci notturni... roba da tutti i giorni nella mia città. Altro luogo adatto alle ombre del fantastico è la Grecia, paese che amo e frequento da tempo immemorabile. Nelle storie greche si incontrano monaci inquieti, fantasmi gentili, ovviamente sirene anche di alto lignaggio, porte dell'Ade e altro. Poi c'è una storia che si svolge a Tashkent e un'altra al mare. Mi auguro che a qualcuno venga voglia di leggerli... Naturalmente ci vuole un ereader (o un iPad con l'app gratutita Kindle), ma non mi sogno neanche di affrontare il discorso in questa sede. L'ebook costa 0,86 cent, e anche qui non sto a sprecare parole. Graditissimi eventuali feedback, e grazie mille se vorrete diffondere.
Un saluto affettuoso e buona estate, stagione molto propizia alla lettura.

Consolata
Cortesemente dal Fotoblog di Lady Simmons.

18.7.12

Un'idea scaduta, ovvero storia di un nome [6]



L'editoria. Già.
Fare gli editori non è per nulla facile, soprattutto volendo produrre libri di «varia».
I librai sono una categoria di terrificanti zucconi. 
Anche se esiste qualcosa di molto peggiore di loro: i buyer delle librerie di catena.
Se i primi si preoccupano in primo luogo della possibile vendibilità dei titoli acquistati, ma conservando un minimo di pudore e coltivando qualche resistenza allo svacco pure e semplice della libreria arredata con 200 copie di Wilbur Smith e 1 copia di Iperborea, i buyer - soggetti semianonimi e semplici quadri aziendali - si preoccupano esclusivamente della vendibilità. Un buon buyer può semplicemente eliminare la presenza di un piccolo editore per millanta motivi, primo tra i quali la «stima» di un'insufficiente velocità di rotazione nelle vendite. 
Questa è, ovviamente, la prima cosa da sapere se volete fare gli editori. Nelle Feltrinelli, per dire, sarà quasi impossibile entrare. Sempre se siete normali aziende e non multinazionali.
La seconda cosa che è bene sapere - e chiedo scusa per il tecnicismo (apparente) - è che nell'editoria esiste un elemento paragonabile per rilevanza all'indice di rotazione delle scorte, il Punto di pareggio o Break even point [BEP],  ovvero il momento nel quale avete pagato tutte le spese e cominciate a guadagnare. 
Quando si comincia a progettare la vita di un libro il maledetto BEP è una delle campanelle che cominciano a suonare senza più smettere. Tipico, infatti, che l'editore - questa improbabile figura semiprofessionale - partecipi alle riunioni di redazione con aria svagata e espressione assente, la mente incastrata sul calcolo del BEP. 



...
CS fu un editore praticamente da subito, anzi nacque prima come editore e solo in seguito diventò una libreria. 
Nei primi anni di vita produsse una dozzina, o forse di più, appunti e dispense di argomenti vari (Igiene, Farmacologia, Chemioterapia, Anatomia Umana, Botanica generale, Odontostomatologia ecc.) e un paio di libri, uno scritto dal prof. Bert, un Dizionario di metodologia medica, e un saggio sull'incidente di Seveso, tanto brutto nell'apparenza che buono nella sostanza. 
L'attività editoriale ha sempre fatto parte del DNA della CS, tanto che quando, nel 1997, si pensò di fare del bollettino di recensioni per i soci una rivista vera e propria nessuno si alzò in piedi a dire: «E il BEP?». Non che mancassero le discussioni, naturalmente, ma furono discussioni su un piano pratico: «come faremo a distribuire la rivista?», «chi sarà il direttore responsabile della rivista?» o, ancora, «Come si chiamerà la rivista?».
La rivista venne battezzata «LN-LibriNuovi»[1], il direttore responsabile fu - e lo rimase fino alla fine del 2011 - Victoria Franzinetti, e Silvia Treves ed io ne fummo i coordinatori. La distribuzione, infine, fatto un giro a sentire i costi richiesti, fu autogestita. «Autogestita» non significa «arrangiata un po' come si può» ma condotta faticosamente a colpi di pacchi, note di consegna, telefonate, solleciti, richieste di pagamenti e di rese di invenduti. Alcuni rappresentanti ci dettero una mano, Roberto Ferrara, attuale rappresentante di Laterza per il Piemonte, Mimmo Parvopassu, de Il Mulino e Maurizio Fraternali di Promozione PDE e la rivista patì col vento in poppa. 
All'inizio. 
E lo rimase per qualche anno, aumentando il numero degli abbonati e acquistando un certo nome, perlomeno tra gli addetti ai lavori. Ma cominciarono a evidenziarsi alcuni problemi, ognuno a suo modo complicato. Le librerie, per cominciare, che non vendevano la rivista. O la vendevano molto meno di quanto era nelle loro possibilità. Non la sostenevano, in sostanza, ovvero non la proponevano ai propri clienti. Disinteresse? Scarsa vendibilità per una «copia» dell'Indice ma priva di NOMI rilevanti? Veste grafica insufficiente o dilettantesca? Qualche gelosie professionale? Tutto è possibile. E se è pur vero che «a pensare male si fa peccato, ma ci s'azzecca», non si tratta comunque di un'ipotesi che in questo contesto serva a qualcosa. Alla fine, viste le difficoltà di vendita - oltre a quello di farsi pagare il poco che si era venduto - abbiamo finito col tagliare il numero di librerie servite, limitandoci alle poche librerie che vendevano e soprattutto sostenevano la rivista. Abbiamo, però, provveduto a cercare di migliorare la veste, sia interna che esterna, della rivista, finalmente consci dell'importanza non soltanto formale della veste tipografica.
Altro problema – che era insieme una fortuna e una complicazione – furono i collaboratori della rivista. Collaboratori (gratuiti) che furono ben presto qualche decina ma che creavano qualche problema. Infatti non pochi tra loro, giustamente, erano anche autori e bene o male collaboravano nel tentativo di emergere nel mondo editoriale. Il grosso problema era che la rivista, sia per la distribuzione limitata, sia per essere edita da un pugno di carneadi, sia, infine, per i pareri non troppo diplomatici ai quali lasciava spazio, non era troppo popolare tra gli italici editori. A questo c'è poi da aggiungere il piccolo particolare che i due coordinatori – due asini, a dirla tutta – recalcitravano all'idea di collaborare con editori, autori, riviste o editor che non gli fossero graditi. E questo atteggiamento, nel mondo editoriale, risultava intollerabile. 
Quindi soprattutto nei primi anni abbiamo avuto un certo tourbillon tra i collaboratori. In parte dovuto anche alla fatica indiscutibile di scrivere con cadenza trimestrale un articolo perlomeno dignitoso dopo aver letto almeno tre o quattro libri. 
Con alcuni redattori ci siamo lasciati con affetto, con altri con una dose (minima) di reciproca delusione, ma in fondo senza rancori durevoli. 
Le richieste di collaborazione comunque non mancavano, sia gradite che ahimé rinunciabili. Uno dei compiti dei coordinatori era, tra l'altro, giudicare gli elaborati dei possibili collaboratori e rispondere gentilmente e fornire consigli e suggerimenti a chi mandava testi in lettura.
E ringraziare, spiegando però che non c'era trippa per gatti, a chi mandava i propri libri in visione chiedendo una recensione – una segnalazione, un commento, un visto-si-stampi – alle proprie sudate carte. [2] E rispondere con un bel «no, non scriviamo recensioni a richiesta, nemmeno pagando» in questo caso non era affatto facile.   
Ultimo problema era la posizione della rivista nel mondo commerciale librario. LN-LibriNuovi era spudoratamente partigiano nel difendere i piccoli e medi editori, la qualità e l'onestà della produzione, una distribuzione non rapace e non assassina, le piccole librerie di zona, gli autori poco noti ma meritevoli di interesse e le letterature di genere. Mancava soltanto promuovere campagne favorevoli all'adozione da parte delle coppie omosessuali e la legalizzazione della maria per risultare indigesti a una quota importante del mondo editoriale che tendeva a liquidarci come dei «poveri dilettanti» e che vedeva rosso a sentire parlare di qualità editoriale o di distribuzione capillare e a sconti egualitari .
Ma lavorare controvento era un problema, un grosso problema. 
Ne parleremo comunque nella prossima puntata, on line entro una decina di giorni. 






[1] La rivista, nonostante la triste sorte della libreria, esiste ancora. La potete trovare cucinata in due diverse salse. QUI, dove ci sono più o meno un quattrocento recensioni e diverse altri interventi e contributi (ma che non viene più aggiornata da un bel po') e QUI, in forma di blog nato verso novembre 2011 e che viene aggiornato con scadenza (quasi) quotidiana. 
[2] Quando abbiamo vuotato la libreria abbiamo dovuto eliminare più o meno uno scaffale di sei o sette piani di  libri inviati o recapitati dagli autori. Alcuni li abbiamo lasciati a chi ci ha seguito nei locali, altri li abbiamo regalati, altri ancora li abbiamo conservati ma una buona parte li abbiamo «prestati» a Cartesio - recupero carta, non foss'altro perché non erano mai stati richiesti agli autori. Un gesto poco generoso ma inevitabile. 



16.7.12

I traffici di Giò Orzo


Ieri pomeriggio ho tentato, lo giuro. 
Ho sparato la mia pennuccia cercando una connessione. 
Ma ho fatto una solenne cilecca. 
Prova sia quest'unico frammento che ho conservato:
...
Qui in montagna la tecnologia è piuttosto arretrata... non so nemmeno se riuscirò a pubblicare il mio con
...
Nulla di più. 
...
John Barleycorn [must die] è ciò che viene definito un «ancient folksong», risalente nelle sue prime versioni note, alla metà del XVI secolo.  Ma è anche il titolo del disco del 1970 dei Traffic. Ovviamente esistono molte altre versioni del brano, che in seguito mi è capitato di ascoltare. Ma per me l'interpretazione dei Traffic, con la voce unica di Steve Winwood che racconta di come John Barleycorn fu eliminato, sotterrato e poi miracolosamente ritornato in vita, rimane davvero unica.


12.7.12

Altri titoli...



Un messaggio sfacciatamente promozionale.
Abbiate pazienza ma sto vivendo di sussidio di disoccupazione e della gentilezza di mia moglie.  E, come immaginerete, non può durare troppo a lungo così. 
Abbiate quindi pazienza e, se ne avete voglia, dedicate 2' e 30" a leggervi il «breve comunicato commerciale»...
...
Altro passaggio in V. S.Tommaso angolo V. Bertola, alla libreria Piemonte Libri e altri cinque titoli recapitati al punto vendita. 
Tra questi segnalo in particolare i due ultimi ALIA edizione 2004. Due per l'ottimo motivo che il terzo ALIA, ALIA Giappone, è purtroppo esaurito. 



Il primo, ALIA Italia, contiene 10 racconti per un totale di 194 pagine + intro, con illustrazioni di Chiara Negrini e Dalmazio Frau e racconti, tra gli altri, di Danilo Arona, Vittorio Catani, Alessandro Defilippi, Mario Giorgi, Consolata Lanza e Fabio Lastrucci. Il tutto per 12 euro.
Segnalo, in particolare, Pater di Mario Giorgi, un racconto lungo, circa una cinquantina di pagine, di un mondo governato secondo i principi di una distopia «sentimentale», che vieta rapporti sentimentali e matrimoniali che superino una determinata lunghezza. Come dice uno dei personaggi:

Cosa significa amare? Amare si ama tutti, senza differenze, uomini e donne, vecchi e bambini, e anche animali e alberi. Come si può amare solo una donna? Non vuol dire spregiare , e quindi non amare, tutte le altre? [...] L'idea che qualcuno pensi solo a me e voglia stare sono me la trovo spaventosa. 


Come spiega Vittorio Catani nella sua prefazione: «Il punto di forza del racconto [è] rendere ammissibile per la ragione ciò che è difficilmente ammissibile emotivamente. Nell'insieme un notevole tour de force concettuale e narrativo, un'opera inconsueta nel panorama del fantastico attuale (e non solo)». 




Il secondo ALIA, ALIA anglosfera, 220 pagine + intro di Davide Mana, sempre a 12,00 euro, presenta racconti di David Brin, Dennis Detwiller, Cory Doctorow, Nalo Hopkinson, Michael Moorcock, Chris Roberson, Charles Stross e Walter Jon Williams, nell'ottima traduzione di Davide Mana. Racconti a vario titolo magistrali, con - per me, sia chiaro - una particolare predilezione per il racconto di Walter Jon Williams, dove l'autore, come spiega Davide nella sua prefazione: «Prospetta una cupa favola, che [...] esplora il tema dei diritti delle intelligenze uploadate [...]»
Due antologie davvero notevoli che meritano due passi - o magari un ordine a ordini[at]aliaracconti.info.

Altri libri che sono arrivati a destinazione sono Joel di Agnese Seranis, I gatti del policlinico di Saul Verona e Salute, geni e cibo di Francesca Di Caro.

A questo punto i titoli nuovamente disponibili di CS_libri sono una quindicina. 
E lo saranno anche a «Milano Book Fair» che si terrà dal 26 al 29 ottobre 2012.
Ci siamo ancora, insomma, e contiamo di rimanerci a lungo...



10.7.12

Semplici inquilini


Un racconto degli anni '90, nato per una sorta di sfida o di scommessa. Scegliere un punto di vista improbabile o assurdo per raccontare una storia per altri versi del tutto normale. Accettai la sfida e produssi il racconto per il natale del '97. Un racconto un po' strano, probabilmente leggermente più angoscioso di quanto possa sembrare a raccontare la storia in poche parole. 
O almeno così mi è parso rileggendolo. 
Buona lettura a tutti.

L'uomo procede veloce sul marciapiede bagnato, rapido come un soffio di vento. Evita un passante, schiva una ragazza uscita da un negozio, appare e scompare ritagliato dai margini tesi degli ombrelli.
Senza cappello nè riparo, si fa spazio marciando sul grigio appena meno umido dell'asfalto, dove l'orlo dei tetti ha smesso da ore di fornire un rifugio efficace.
Dalla finestra non ne distingue il volto, né gli importa di riconoscerlo.
Un amante in ritardo? Un agente di commercio che ha smarrito il campionario?
Nel flusso costante di visi e corpi lo sconosciuto forma un trascurabile incidente, un evento irrilevante senza ripercussioni per nessuno. Tranne, forse, per qualche ragazza dal trucco troppo caricato che guarda ancora una volta l'orologio prima di soffiarsi il naso, la carnagione illividita dal riflesso di luce di un ombrello verde. O per qualche ladruncolo che nell'umidità di un androne traffica col coltello nella serratura dorata di una valigetta.
L'uomo porta un cappotto leggero, aderente, dal sottile disegno geometrico, scarpe opache di umidità. Sta perdendo i capelli, capelli fini, di un colore che ricorda quello delle setole di un pennello. Sicuramente ansima, sa che da un momento all'altro scivolerà e cadrà addosso a qualcuno. I passanti lo considerano con fastidio, chi lo vede si fa da parte di fretta.
Ecco, adesso è finalmente caduto. Si alza con goffa rapidità, si sforza di sorridere per rassicurare tutti delle sue condizioni. Stordito si passa la mano sul lato destro del cappotto bagnato e sporco di fango. Si osserva la mano fredda e bagnata. Riprende a camminare più lentamente, come se la caduta gli avesse restituito un po' di lucidità.
Arriva alle spalle di una donna coperta da un'ampia cerata gialla, con il cappuccio che le copre la testa. La donna si volta: il suo sguardo è nascosto dall'orlo arrotondato. Non sorride, l'uomo annuisce e mostra il cappotto macchiato. Si allontanano, insieme ma separati da un'insofferenza che con gli anni non potrà che crescere.

Si ritira dalla finestra, arretrando tra le due linee chiare di stoffa che si chiudono lentamente, come le onde di un mare giocattolo.
Sul tavolo - velluto coperto da una spessa lastra di vetro - il mappamondo.
Gira lentamente, cigola, sbanda a sinistra. Nel muoverlo si preoccupa sempre che non lasci tracce sul cristallo e non faccia rumore.
Osserva a lungo, quasi compiaciuto, l'ampia curva di mare che separa la sua patria dalle terre del nord. Irrimediabilmente lontano, dedica alle minuscole scritte sulla superficie curva tutta la sua attenzione. Le conosce una per una, le incolonna nel pensiero a formare un'unica lunghissima parola che rappresenta tutta la sua vita. Eppure i nomi sono soltanto nomi, casuali incroci di lettere e suoni, e sempre più spesso scopre che non riescono più a evocare in lui nessuna immagine.

Thi...ra, dalle strade ampie, con i lampioni a forma di campana e le piazze ricche di portici.
Lu....ga, dalle vie strette, umide d'ombra e di odore di pesce.
Ca... la, dipinta sulle colline, i tetti rossi e le cornici delle finestre di pietra grigia.

Nomi e figure rigidamente allineati, vivi di quel po' di vita che riesce ancora a racimolare.
Quando l'ansia diventa insostenibile scivola tra le grandi tende e guarda la via che gli scorre davanti, sempre uguale e sempre diversa.

Non conosce quella città e quelle vie. O forse le ha conosciute e ora, semplicemente, non riesce più ricordarle.
Di tanto in tanto cerca di sorprendersi: scosta la tenda di scatto e guarda la città all'improvviso, inventandosi la meraviglia innocente di un viaggiatore.
Per qualche momento, quando quel gioco non era ancora divenuto un'abitudine, aveva avuto la sensazione di riconoscere e aveva sentito, insperato, un tuffo al cuore. Ma da tempo non riesce più a provare nulla di simile. Solo il ricordo di quell'unica intensa emozione, che può inutilmente richiamare quando vuole, guardando i tetti grigi e appuntiti, quasi sempre umidi, che assediano la sua finestra.
Le sue esigenze quotidiane non riescono a occuparlo per un tempo sufficiente. Vi adempie con cura testarda, ma non riescono a lasciargli una traccia durevole. Larve di piaceri, tracce di sapori: un universo di sensazioni flebili e discontinue che, ancora una volta, teme siano esclusivamente frutto di ricordi e fantasie.
Potrebbe uscire, certo, ma detesta la pioggia. E poi non è più abituato a discorrere. Il personale dell'appartamento non lo disturba, ogni sua necessità viene prontamente e abilmente soddisfatta, i tappeti sono eternamente ben spazzolati, le cristallerie invariabilmente splendenti.
Conduce una vita ordinata, metodica. Non annoiata, no annoiata non potrebbe proprio definirla. Prima aveva avuto così poco tempo per riflettere su se stesso, per tentare di sseparare i ricordi dai sogni, e poi i ricordi dei sogni dai ricordi delle cose realmente avvenute. Ora, senza nessuna fretta, può sistemare tutto in cassette bene ordinate dove pescare a piacimento.

...Una mattina passata a passeggiare sul molo di un porto mai visto prima, per esempio. Doveva essere accaduto quando per un settimana aveva accettato una rappresentanza fuori dalla sua zona abituale. Solo una settimana, se ne ricorda bene. Sì, perché gli affari erano davvero magri. La città era in piena decadenza, il porto era per metà abbandonato e in disuso. Certe cose le capiva al volo, aveva sempre avuto un certo fiuto...
Il molo, umido e screziato e verde come probabilmente tutti i moli, aveva gradini che scomparivano sotto il pelo dell'acqua. Quel giorno, ancora umido e freddo di una pioggia recente, il mare era opaco come un vecchio vassoio d'argento dimenticato in soffitta. I gradini mandavano un odore più intenso. Scendevano verso il fondo, coperti di alghe sempre più abbondanti, spettinate e lente come i capelli di un annegato.

Gli era venuta la voglia di scendere. Che era un semplice desiderio di morire. Ma non di morire per rabbia o per paura, ma solo morire per curiosità, per unirsi al ritmico silenzio delle onde. E nemmeno era poi corretto usare la parola morire. Aveva desiderato confondersi, ecco cosa avrebbe voluto dire se qualcuno glielo avesse chiesto in quel momento, discendere tutta la scalinata fino a giungere sul fondo, i polmoni che, dopo la sorpresa iniziale e il panico, si adattano a respirare l'acqua, il cervello che finalmente si svuota di tutti i ricordi della sua insopportabile unicità.
Dovrebbe poter affermare che la sua attuale situazione non manca di una sua studiata, cronologica felicità. Liberato dalle necessità più sciocche e quotidiane, può dedicarsi instancabilmente a organizzare le sue emozioni, ciò che ancora sfugge alla sua metodica enumerazione.
Il mappamondo è il vero centro dei suoi problemi. La presunzione dei suoi nomi che pedantemente si ostinano a cercare in lui ricordi inattesi diviene giorno dopo giorno più intollerabile. Eppure non riesce a resistere. Quando si leva, alle prime luci, il suo primo pensiero va alla filastrocca fatta con i nomi delle città che ha conosciuto (o di cui ha anche solamente sentito raccontare). Con stizza la recita di nuovo e poi si getta oltre le tende cercando ancora di sorprendersi. La città lo attende, fasciata di freddo. Non ricorda di averla mai vista illuminata dal sole. Solo, talvolta, un riflesso pallido nascosto dalle nubi, che ricorda la lampadina di un frigorifero.

Ultimamente gli capita di essere costretto a dividere il suo spazio con ospiti non invitati, o perlomeno non invitati da lui.
Si tratta di un uomo e una donna. Non troppo giovani, ma ancora gradevoli.
Talvolta con loro c'è un bambino. Si siedono sul divano, foderato di raso a righe rosa e bianche. Negli spazi bianchi vi sono piccoli trionfi floreali che richiamano lo stesso rosa. Il bambino gioca con alcuni cavalieri che porta con sè in una scatola foderata di stoffa turchina. I suoi genitori parlano tra loro solo ogni tanto.

Lui si siede di fronte a loro e li osserva.
Vorrebbe che capissero che la loro presenza non è gradita.
Solleva lo sguardo ogni tanto per fissarli, interrompendo la sua instancabile enumerazione.
Lo ignorano con uno scrupolo che verrebbe da definire ammirevole.

Non riesce a ricordare che una volta sia avvenuto qualcosa di diverso, tra loro. Qualche volta c'è il bambino, altre no, qualche volta parlano, qualche altra, quando sono soli, si abbracciano e si palpano simulando passione. Ansimano e si ricompongono in fretta, quasi imbarazzati. Sono poche situazioni, sempre identiche. Si ripetono con una regolarità che forse riuscirebbe a cogliere se mai riuscisse a capirli, quando parlano.
Sa che si esprimono in una lingua per lui comprensibile: le inflessioni, i toni, gli paiono assolutamente intellegibili. Eppure borbottii e scoppi di voce non riescono mai a organizzarsi in un discorso coerente. Scivolano via, come i pasti che non riesce a ricordare - eppure sa di non avere né fame né sete - come le scene viste dalla finestra, come i volti del personale di servizio, con la divisa blu scuro e le grandi cuffie bianche.

Gli è capitato di battere le mani, schiarirsi la voce, quando la visita si prolungava eccessivamente. Persino di sospendere la catalogazione dei ricordi per fissarli con uno sguardo che si augurava risultasse - certo - impaziente, ma anche ironicamente tollerante, quasi bonario.
Ma non quando si abbandonano alle loro effusioni. In quei casi si rifugia oltre le tende e ritorna nella sua stanza solo quando i due hanno terminato.
La coppia non sembra comprendere i suoi delicati richiami. Fissa le pareti, il muro dietro di lui. Lei protesta che fa freddo, cosa assolutamente ridicola, e dopo qualche segno di malumore se ne vanno in un'altra stanza.
Solo il bambino sembra capire. In qualche occasione stupirsi. Una volta è giunto a dire: vuole che ce ne andiamo...
Ricorda come hanno sorriso, allora. Un sorriso tiepido, dolciastro, carico dell'inutile, stupido orgoglio di essere divenuti - senza alcun merito proprio - adulti.
... Ma cosa dici? Non abita nessuno qui, da tanto tempo...



8.7.12

feelin' good


È una canzone del 1965, scritta da Anthony Newley e Leslie Bricusse e interpretata per la prima volta da Cy Grant. Uno standard, in linguaggio jazzistico. L'ha eseguita qualche centinaio di intrerpreti, tra cui Michel Bublè, i Muse, Nina Simone, the Pussycat Dolls, i Mighty Bop, i Traffic, George Michael e... John Coltrane. 
...
È una canzone anni '60 per certi versi tipica. Con un riff di fiati ossessivo e potente, un ritmo bluesy incalzante e un colore scuro e minaccioso. Era, per capirci, il tipo di colonna sonora che accompagnava i telefilm di Perry Mason e i noir dell'epoca. 
Le versioni contemporanee sono in vario modo comunque fedeli alla linea melodica originale. Anche perché non è facile trovare qualcosa di altrettanto miracolosamente blues e una nota in più o in meno non può che deteriorarne la struttura. 
Qui riporto le versioni di Nina Simone e dei Muse con un curioso video popolato da creature a metà tra i vampiri e gli alieni, confessando comunque la mia simpatia per quella di Michael Bublè, per quella dei Traffic (che presto appariranno qui), per George Michael in compagnia di Dita Von Teese - anche l'occhio vuole la sua parte - e persino per la versione ottimamente arrangiata delle Pussycat Dolls... 





5.7.12

Un'idea scaduta, ovvero storia di un nome [5]


La vendita dei libri di varia, siamo arrivati qui, no? 
La «varia» è, per chi si occupa professionalmente di libri, l'insieme dei libri che vengono proposti e acquistati senza una motivazione «esterna», cioé libri non scolastici né universitari, scelti dal cliente - divenuto «lettore» -  al semplice scopo di rilassarsi, distrarsi, informarsi o migliorare la propria conoscenza in una determinata materia o tecnologia. La «varia» e la sua gestione è, in poche parole, ciò che distingue una libreria da una «cartolibreria con servizio di scolastica» o da un «supermercato con tutti i titoli scontati».  
La gestione della varia è ardua e complessa, tanto più ardua e complessa tenendo conto delle condizioni di assoluto sfavore con il quale si viene trattati dai distributori. 
Lo so, l'ho già spiegato un qualche centinaio di volte, ma ritornarci sopra può schiarire meglio le idee ai tanti che mi hanno chiesto: «ma perché chiude, la CS?».
Lo sconto offerto dai distributori alle librerie normali, ovvero con un fatturato tra i 200.000 e i 300.000 euro/anno, è nominalmente del 30%. Un libro da 10 euro lo pagate, 60 gg. dopo, 7 euro. Anzi, per la verità lo pagate 7,30 euro. In genere c'è un 3% di «porto e imballo» per ogni consegna. Sia che vi portino i libri in sede sia - e questo è tragicamente comico - se ve li andate a ritirare presso il distributore.
Dopo i primi sessanta giorni il prezzo del libro resterà a carico della libreria, aumentando il proprio costo di 2-3 punti percentuali all'anno per semplice effetto dell'inflazione. Ovviamente, però, nessuno si tiene il libro in casa per un intero anno, a meno che non esista una motivazione culturale nell'avere il libro sempre disponibile. Normalmente Romeo and Juliet o 1984 o Alice nel paese delle meraviglie o Les fleurs du mal sono in genere immediatamente disponibili presso una qualsiasi libreria, come lo sono - sia pure per motivi parzialmente diversi - l'ultimo romanzo di Camilleri, La casa degli spiriti di Isabel Allende, L'alchimista di Paulo Coelho o Il nome della rosa di Umberto Eco. Questo genere di operazione viene, in genere, compensata dall'aumento del prezzo di listino di 20-30 eurocent all'anno che permettono, perlomeno, di neutralizzare gli effetti dell'inflazione.
Una volta fissato un «magazzino minimo», ovvero quell'insieme di libri che non devono mai mancare per più di pochi giorni in libreria, si tratta di lavorare con gli altri, ovvero con i tanti libri da 7,30 euro che vi arrivano e che dovete vendere. 
La percentuale dei titoli venduti in almeno una copia presso la vostra libreria non supera quasi mai il 60-70%. In sostanza ogni 10 titoli da voi acquistati 3 o 4 resteranno invenduti. Nessuno se li filerà. 
Opperbacco. 
E non è affatto detto che siano libri orrendi.
Quando li avete acquistati avevate pensato che a qualcuno sarebbero interessati... 
Dopo i famosi 60 gg. si dovranno rendere. Anche perché le librerie dopo un po' esplodono. Tenete conto che per la CS i titoli nuovi, le «novità», erano 5-6.000 all'anno, ovvero mediamente 15-18.000 libri. Per una libreria medio-grande possono comodamente arrivare a 30-40.000. 
Quindi rendete il libro. 
Aggiungete un ulteriore 3% - sul prezzo netto, questa volta - per fare arrivare il libro al magazzino del distributore, in genere in giganteschi silos in qualche lontana provincia, e 60 - 90 gg. per ricevere il vostra accredito. In sostanza il libro da 10 euro di copertina vi è costato:

7,30 + 0,2 = 7,50 [sconto 25%]

e siete nuovamente proprietari del vostro denaro soltanto a 150 gg.  
...
Ma vendere i libri a prezzo di copertina non è possibile. 
Non si fa. 
Soprattutto per noi, ex-CS, nati come cooperativa e come tale ben determinata a vendere i libri scontati ai nostri soci. 
Lo sconto massimo previsto dalla legge attualmente in vigore è del 15%.
Il nostro libro da 10 euro lo vendete a 8,50 euro e lo pagate 7,30. 
Il vostro margine lordo è di 1,20 euro/libro. 
Sporco, dal momento che il prezzo delle rese pesa sul vostro 1 euro e 20 eurocent.
Sui libri venduti. 
Che recuperate su un 40-45% scarso dei titoli. Già, perché il 60-70% riguardava i titoli venduti in almeno una copia, ma qui stiamo parlando di tutti i titoli e tutti i libri. 
In questo striminzito margine lordo devono entrare: 
- L'affitto del locale, il riscaldamento, l'arredamento
- Le spese del personale, i contributi, il TFR
- Le tasse, i balzelli, le imposte, i tributi
- Le spese bancarie e, nel nostro caso, gli interessi passivi sui prestiti e sul fido bancario. 
È un equilibrio maledettamente difficile e basta letteralmente un soffio per comprometterlo. 
Un aumento dell'affitto. 
Un aumento delle tasse.
Una variazione delle spese bancarie. 
Una diminuzione degli incassi per una situazione di crisi generalizzata... 
Potete ridurre lo sconto. Ma questo allontanerà una parte della clientela. 
Potete ridurre i titoli acquistati. Ma anche questo alla lunga allontanerà una parte della clientela. 
Potete mutare l'orientamento del magazzino, scegliendo titoli di maggior vendibilità.
Peggio che andar di notte. 
Ecco, avete già capito.
...
Lo sconto, uguale per tutti, era il grimaldello delle cooperative librarie. E un modo per il cliente di diventare lettore a tutti gli effetti. L'ho fatto, l'ho visto. 
Ma lo sconto generalizzato sotto forma di campagne - a ripetizione - condotte dai maggiori editori che possono imporre prezzi eccessivi sulle novità librarie, accettandone una riduzione soltanto apparente è stata - e sarà - la fine delle piccole librerie. Delle librerie di prossimità. Lo stesso discorso vale per lo sconto concesso dalla librerie on line. Per lo sconto delle librerie di catena, con un margine lordo ben superiore al 40%. Per lo sconto dei supermercati su un'insieme ridotto di titoli.
Le librerie indipendenti hanno - ahimè troppo flebilmente -  protestato per la campagne con lo sconto del 30% (20% a carico dell'editore e 10% a carico della libreria) affermando che questo imponeva un prezzo di copertina troppo elevato, protestato per lo sconto troppo elevato permesso dalla legge, protestato per la differenza nel regime degli sconti concessi dai distributori... protestato fino a perdere il fiato e la voglia di farlo.
Sinceramente credo che non esista più uno spazio ragionevole per le piccole librerie di varia. A meno di non lavorare da soli, in un locale di proprietà, vivendo del denaro accumulato altrove, in un'altra attività. 
Questo non è stato il mio caso. 
...
Una delle possibili vie d'uscita dalla situazione ci è parsa, a un certo punto della vita della CS, il diventare editori. Sapevamo che fare gli editori era un sistema accellerato per finire in miseria, ma ci abbiamo provato ugualmente.  
Ma di questo parlerò nella prossima puntata.