9.11.12

M.A.d.u.L.p. 3. Il cliente nefando



Nuova puntata del (poco) famoso M.A.d.u.L.p., questa volta dedicato a un tipo peculiare di cliente e all'ontologia della sua esistenza
N.B: nel corso di questa puntata delle Memorie verranno emessi giudizi e commenti piuttosto liquidatori nei confronti di titoli e autori piuttosto noti. 
Astenersi Anime Belle.

Una libreria esiste in quanto raccoglie un certo numero di soggetti interessati all’acquisto di libri. I clienti.
Ogni libreria ha i propri clienti. Spesso si può anche affermare che la libreria ha i clienti che si merita. Detto così può sembrare persino denigratorio ma non (necessariamente) lo è.
Ma quale libreria? Che tipo di libreria? Private, di catena, piccole, grandi?
Cominciamo dalle librerie di catena che ultimamente sembrano il massimo. Sono, per forza di cose, più anonime. Per alcuni si tratta di una garanzia di tranquillità e privacy rispettata. «Mi arrangio, cerco il mio libro, pago e me ne vado. Niente domande, niente “Posso esserle utile?”, niente terzo grado su gusti e/o interessi». Confesso sinceramente che se non facessi parte della categoria di quelli che stanno dall’altra parte del banco mi servirei più volentieri di questo genere di librerie. Non mi piacciono le domande e considero un disturbatore chiunque voglia indagare – anche a fin di bene – sulle mie letture. Senza contare il rischio di ricevere un consiglio assolutamente e anonimamente standard, tipo: «C’è l’ultimo libro di Gervaso» o «È appena arrivato il nuovo libro di Bruno Vespa». Vade retro!
Anonime perché frequentate da un pubblico anonimo e frettoloso ma anche da chi non ama avere il libraio tra i piedi. Anonimo non significa, quindi, per forza «brutto» ma semplicemente meno personalizzato.
Passa molta, moltissima gente nelle librerie di catena. Ovvio, sono sempre ubicate in luoghi commercialmente vantaggiosi (questo è il motivo per cui non esistono librerie di catena in via Ormea, a Torino, per esempio), ossia in luoghi «di passaggio». Da qui la distinzione attuata dagli uffici commerciali degli editori e dei distributori tra «librerie di passaggio» e «librerie di catalogo». Non è difficile per nessuno immaginare quale delle due categorie risulti redditizia o quantomeno economicamente solida.
E qui c’è l’inciso. Non si scappa.
Questa distinzione non è sempre così ben afferrata dai frequentatori delle librerie. Così c’è chi va a cercare un saggio sulla tragedia greca di Vidal-Naquet in una Feltrinelli Village, ricevendone in cambio sguardi smarriti: «Abbiamo Io uccido di Giorgio Faletti, però!» e c’è chi entra in una libreria antiquaria cercando biglietti dell’autobus o raccolte di barzellette. Casi limite, certo, ma indicativi: sono in molti a credere che una libreria in quanto libreria abbia tutto o quasi e non pochi di questi molti sono altrettanto pronti ad adontarsi se gli viene rivelato che un libro del 1978 non è più in commercio. Ciò che il lettore medio ignora è il numero di titoli che annualmente vengono prodotti. Più di cinquantacinquemila, dei quali poco meno di quarantamila titoli nuovi. Anche sfrondando questo numero a cinque cifre di raccolte di poesie pagate dall’autore e pubblicazioni a circolazione locale o professionale, il numero di titoli nuovi che una libreria dovrebbe acquistare per essere fornita è semplicemente terrificante. Anche tenendo conto che una libreria degna deve avere sempre disponibili comunque autori come Calvino, Pirandello, Russell, Cartesio o Einstein, che novità non sono. Qualunque libreria, in sostanza, sceglie. Sceglie che cosa interessa tenere e rifornire e che cosa non interessa tenere né eccetera. E qui si torna a bomba alla selezione del cliente. La libreria seleziona il cliente nello stesso modo nel quale il cliente seleziona la libreria.
Ovviamente questo è tanto più vero quanto meno la libreria è di passaggio. Una libreria «di passaggio» deve preoccuparsi molto della rotazione dei titoli, perché lo spazio costa e deve essere meticolosamente sfruttato al meglio. Le librerie di catena giungono a raffinatissimi artifici in proposito, selezionando tra i titoli da tenere di un dato argomento – che so, la magia dei templari – i tre titoli a più alta rotazione nei magazzini editoriali.
Inciso.
Certo che così finisce che tutti hanno gli stessi libri e nessuno ha il quarto o il quinto o il sestultimo nella classifica degli indici di rotazione. Ma questo interessa a pochi: qui si parla di soldi, non di cultura. Per la cultura ci sono le biblioteche, perlomeno finché esisteranno nella loro forma attuale. E le librerie «di catalogo».
Chi pubblicherà poi i libri che dichiaratamente partono senza l’aspirazione a essere best-seller non si sa e non interessa nessuno. E non soltanto in Italia, il belpaese dove giornalisti e saggisti scompaiono dalla televisione da un giorno all’altro senza che molti insigni commentatori, di quelli che amano autodefinirsi «liberali», diano segno di essersene accorti. Ma questo non è nemmeno un inciso, è proprio un altro discorso e non mi sembra il caso di…


Ma queste sono memorie e come tali devono essere fatte di ricordi personali. In questo caso timori e tremori.
Si parlava di clienti. Desiderati, scelti e subiti.
Ci sono clienti che incarnano l’incubo per chiunque venda libri.
Incubi ricorrenti o, se si preferisce, ritornanti.
Farò una sorta di identikit, provando a giustapporre le caratteristiche più nefaste per creare il mostro dei mostri: il C.N., ovvero il Cliente Nefando.
Trattandosi di un identikit immaginario e intrinsecamente autocontradditorio è possibile che qualcuno si riconosca in almeno una delle caratteristiche presentate. Non è strano: tutti, almeno una volta nella vita, sono stati almeno per un attimo C.c.N.n., compreso probabilmente il sottoscritto anche se in tempi ormai abbastanza remoti.

Con il tempo e l’esperienza è possibile riconoscere il Cliente Nefando già al momento dell’ingresso in libreria. In questi casi è possibile tentare la fuga lasciando il problema a qualcun altro. L’esperienza del lavoro in libreria è fatta anche di questo.
Il Cliente Nefando è esitante ma nervoso, frettoloso ma sfaccendato, spesso dotto ma meno colto di quanto immagina, specializzato ma incostante. È quieto ma tendenzialmente rissoso, apodittico ma distratto, assertivo ma falsamente umile. Percorre tavoli e scaffali con il passo accelerato di chi è deluso in partenza, sposta, tocca, muove, sbircia, scartabella e compulsa con una punta di impazienza. Tipcamente il cliente nefando cambia umore e intenzioni in base a motivi inafferrabili. Può richiedere l’opera omnia di un autore poco noto, attendere nervosamente che l’elenco prenda la forma di una piletta di volumi – o più spesso di un elenco cartaceo – per poi perdere improvvisamente interesse, sibilare un: «ma lasci perdere» e ronzare via come un moscone irritato. Se vuole regalare un romanzo vorrebbe distinguersi ma non trova di che e diffida di consigli e suggerimenti che rigetta ostentando disgusto, anche se li sollecita con ansia nervosa.
Qualunque creatura sana di mente in capo a cinque minuti vorrebbe strangolare il Cliente Nefando e sistemarne il cadavere in una scatola di volumi resi. Ma oltre che moralmente riprovevole l’azione sarebbe inutile: la salma non verrebbe accreditata e ritornebbe in libreria dopo un paio di mesi.
Non raramente il Cliente Nefando insinua che sia la libreria a essere sfornita dei libri che davvero avrebbero fatto al caso suo. E che altre l’avrebbero servito molto meglio. Inutile illudersi: la stessa scena con le medesime parole l’ha già fatta in altre librerie e non prelude all’abbandono del campo, serve soltanto a confermare nel C.N. il suo elevatissimo amor proprio.
Nessuno è capace di essere franco con lui e chiedergli, semplicemente e pianamente: «Ma lei che cosa vuole?» Nemmeno io, che pure ho ormai una bella esperienza (un modo più accettabile per denunciare la propria età), so come comportarmi con il C.N. Blandirlo? Sfidarlo? Umiliarmi? Ignorarlo ostentatamente? Semplicemente schiaffeggiarlo senza dire una parola? E poi, qual è lo scopo recondito dei C.c.N.n.? Perché esistono?


Il rapporto con i libri degli italiani è contorto e irrazionale.
Irrazionale nei forti lettori che acquistano a distanza di un paio di mesi un libro già acquistato e non ancora letto semplicemente per bulimia, irrazionale nei lettori episodici che cercano soltanto storie che finiscano bene, dove non ci sia troppa violenza e dove i personaggi siano simpatici. Irrazionale quando l’essere lettori abituali acquista lo spessore di status, induce e incita a piccoli snobismi e diviene il biglietto d’ingresso all’immaginario Parnaso dei raffinati e dei delicati in un paese di deboli e debolissimi lettori. Irrazionale quando il proprio gusto personale rischia di diventare il grimaldello che apre tutte le porte, rischio che è insito nella lettura e nel discuterne ma che dovrebbe essere mantenuto a freno…
L’investimento emotivo nel libro è spesso, se non sempre, molto elevato. Il libro di narrativa è per molti un viatico a qualcosa di indefinito, una porta da aprire che può condurre a nuovi pensieri o, più semplicemente, a un modesto ma gradevole viaggio. Un libro è prezioso – caratteristica curiosa che il libro condivide con i dischi e i film – in base al valore potenziale che gli attribuiamo, valore che non si identifica con quello del denaro speso per possederlo. Tanto è vero che io stesso, lettore semi-abusivo che paga la lettura con il lavoro, non riesco ad abituarmi ai libri deludenti, ai bidoni, ai libri nati dal tentativo di aderire a una tendenza piuttosto che dal tentativo di essere loro stessi tendenza.
Inciso: da quando il mediocre volumetto di Melissappì, Cento colpi di spazzola, ha avuto un insperato (dall’editore) successo presso adolescenti, post-adolescenti e adulti curiosi, i libri e i libretti opera di sedicenti sedicenni (?) confuse, disperate e vogliose sono diventati folla. La cosa finirà, come è stato per tutte le tendenze, con parecchie delusioni e grosse quantità di rese. D’altro canto azzeccare un libro è raro e accodarsi a qualcuno è più facile che guidare nella nebbia…
Non riesco ad abituarmi, dicevo.
In effetti, siccome un libraio ha comunque una sola vita e, nonostante le apparenze, in libreria può soltanto sbirciare e leggiucchiare, una lettura deludente o più raramente nefasta (tre esempi personali scelti tra molti: Anima mundi di Susanna Tamaro, Branchie di Niccolò Ammaniti, City di Alessandro Baricco) costituisce un furto con destrezza di tempo e di vita, del quale ci si consola, generalmente, allineando (pateticamente) riflessioni sui tempi e i costumi – O tempora, o mores! – che questo genere di letture suscitano.





Ma se…
Ma se persino io, o i miei colleghi, siamo sovente vittime di letture inadeguate, francamente frustranti o nella migliore delle ipotesi inutili, quante possibilità ha il cliente medio di non scialacquare il proprio denaro e, forse peggio ancora, il proprio tempo?
Perché esistono i C.c.N.n.?, mi chiedevo qualche decina di righe fa. Beh, forse è sufficiente un po’ di immaginazione per rispondere a questa domanda. Un C.N. germina da tratti personali: piccoli snobismi, ansia da prestazione, esibizionismo e timore di apparire inadeguati. Ma anche da frustrazione, delusione, senso di insicurezza e di insoddisfazione. Un mix micidiale che una produzione indiscriminata e soprattutto indiscriminante1 rende definitivamente tossico.
Insomma, forse il C.N. non ha tutta la colpa dell’apparire così.
Le delusioni d’amore rendono acidi e diffidenti, diceva mia nonna.
Le delusioni di lettura rendono C.N.

Fine di questa puntata.
La prossima sarà sull’editoria universitaria medico-scientifica di qualche anno fa e sui personaggi che l’affollavano. Sarà una puntata altamente istruttiva dedicata all’Italian way of business
Che poi uno si stupisce che Berlusconi abbia vinto le elezioni…
Mi accorgo ora che ho parlato di clienti mentre avevo promesso di parlare di sconti. Beh, se LN continua nonostante tutto a uscire ne parlerò, giuro.
Ma senza impegno.
Insomma, potete aspettarvi qualsiasi cosa.


1 A chi nutre perplessità sulla scientificità di questo assunto consiglio una prova: per un paio d’anni leggere esclusivamente i titoli che appaiono nelle classifiche di vendita. Alla fine dell’esperimento se sarete diventati soltanto C.C.N.N. e non analfabeti di ritorno potrete ritenervi fortunati.

2 commenti:

Romina Tamerici ha detto...

Vedere la lista dei libri più venduti in Italia è sempre un duro trauma. Ogni settimana io la leggo su questo blog (http://preferiscoleggere.blogspot.it) e ogni settimana puntualmente mi chiedo dove andremo a finire. Finora non ho trovato risposta.

Io amo leggere i classici oppure i libri di esordienti, quindi non sono molto informata sulle tendenze moderne. Qualche anno fa ho letto "Tre metri sopra il cielo" per pura curiosità... sono quegli errori molto formativi che ti fanno capire che il tempo è prezioso! Parere personale, ovviamente, non vorrei essere presa d'assalto da un gruppo di fan di Moccia.

Massimo Citi ha detto...

@Romina: io mi astengo dal leggere le classifiche. Lo facevo già quando lavoravo in libreria. Non dico che siano tutte balle - non vorrei creare false illusioni - ma certamente non sono assolutamente veritiere. È bene comunque ricordare che ciò che ha un peso statistico è determinato dal movimento di quel 30% di deboli lettori (da 3 a 11 libri/anno) che abbocca allegramente alle stupidaggini pompate dalla TV. Chi compra l'ultima Litizzetto, l'ultimo De Carlo e l'ultimo Vespa costituisce un campione statistico ma nulla di più. Quanto ai fan di Moccia - sfornatore di pizze precotte e predigerite - credo che siano felicemente scomparsi: invecchiati, intristiti e disperati.