25.3.13

Autocombustione

Un racconto nato da un momento di spleen, da una visione o forse da una sensazione. Uscito su LN 50, estate 2009, un paio di mesi prima del mio personale “accidente”. Un po' diverso dai miei soliti racconti, se non altro perché (forse) esiste qualcosa che porta la responsabilità dei morti. La breve prefazione che segue è apparsa a suo tempo in apertura del racconto.

Capita di dire di essere sprofondati in un libro. Di essere stati trasportati altrove o rubati alla realtà. Persino di essersi bruciati il cervello per comprenderlo. Da una parte noi – attivi, vivaci, attenti – dall'altra parte il libro: passivo, silenzioso, disponibile. Ecco: il libro di questo racconto è soltanto un po' meno passivo dei suoi confratelli. Decisamente meno disponibile. Ha probabilmente un lungo, lunghissimo passato e un futuro oscuro e terribile. Si può tentare di leggerlo, certo, ma le conseguenze possono essere davvero impreviste… Anche se non potrete comunque dire che la lettura non vi ha fatto sudare…
 

Scrivere… bah, inutile.
Tempo sprecato, fatica inutile.
Forse pericolosa.
 
 
Lo portano via in silenzio, avvolto in un sudario plastico, quasi non volessero svegliarlo.
Il rischio non esiste. È arso, bruciato come uno zolfanello.
Attraverso lo spiraglio della porta semiaperta posso vedere infermieri e poliziotti girare per il suo appartamento, «l'appartamento dello scrittore», cercando indizi, tracce, segnali o chissà cos'altro. Probabile non cerchino nemmeno le stesse cose. Passano silenziosi in corridoio e, immagino, nelle altre tre stanze. Il mio vicino si è addormentato fumando. Il mozzicone acceso è scivolato a terra ed è caduto sulla moquette. Invece di spegnersi, lasciando una bella macchia nerastra, ha appiccato il fuoco alla poltrona. Immagino si sia svegliato per il caldo ed il bruciore – sempre si sia svegliato – ma non si è mosso dalla sua vecchia poltrona. L'ha trovato bruciato alla perfezione il portinaio. Ancora seduto, un blocco di fogli arsi in grembo. Probabilmente uno di quei manoscritti che leggeva per conto dell'editore. O forse il manoscritto di quel demente.
Possibile fosse ubriaco. Forse anche peggio. Per trovare la concentrazione o l'ispirazione o qualcosa del genere si faceva mattina e sera. Ingoiava o fumava o tirava qualsiasi cosa: bicchieri, spinelli, piste. Tutto quello che gli capitava a tiro. Penso non fosse una sigaretta quella che fumava in poltrona. Ma ormai non è facile capirlo.
Mi stringo nelle spalle.
Oh, bé bé. se ne accorgeranno da soli, penso. Con il RIS o qualcosa del genere troveranno le tracce della droga. O delle droghe.


– Signora?
Mi fissa attraverso lo spiraglio della porta lasciato aperto dal catenaccio. Un occhio marrone con curiose ciglia troppo lunghe per un uomo, inquadrato tra i battenti. Sgancio la catena: – Sì?
Apre leggermente la porta con la punta della scarpa: – Buongiorno. Antonio Calabrese, carabinieri. Posso farle qualche domanda?
Mi stringo nelle spalle: – Visto che è qui…
China la testa in un silenzioso atto di cortesia ed entra. Accosta la porta alle proprie spalle senza chiuderla. – Soltanto un paio di domande… – Non conclude la frase ma ha già risolto il caso come «idiota incidente domestico» e tutto quello che segue è fatale routine. – Sa se aveva ospiti ieri sera, il signor Piatti?
Non voglio essere coinvolta in questa storia. Non ho ancora nemmeno deciso se devo sentirmi addolorata o meno. In ogni caso una domanda cretina se ignori completamente i miei rapporti con «il Piatti». Lo guardo sgranando gli occhi. Un po' ridicolo per una donna che si avvicina ai quaranta ma che fa sempre – o dovrei dire ancora – il suo effetto. – No, non lo so. – ammetto, presentandomi come un po' turbata.
Il carabiniere sorride più convinto. Ora si sente un protettore della legge mentre io sono soltanto una (ex-)ragazza bisognosa di aiuto, conforto, sostegno. Magari anche di una bottarella, se capita.
– Capisco. Ha sentito voci, movimento? Gente che andava e veniva?
Mi sorride, ma mi pare poco convinto. Un po' diffidente. Forse alla mia età dovrei piantarla con le mossette da ragazzina. Prendo un'aria seria e compresa: – Ma… direi che c'è stato un po' di movimento verso le undici di ieri sera. Non posso giurare che si trattasse del professore, non ho l'abitudine di spiare alla porta, ma direi che verso quell'ora qualcuno se n'è andato da uno degli appartamenti. Ho sentito i soliti saluti, «arrivederci – arrivederci – ciao – ciao» poi il rumore di una porta che si chiude e il silenzio.
– Colleghi? Amici?
– Era una donna, – puntualizzo, – ma non posso giurare sia uscita dall'appartamento di Piatti.
– Già, ha ragione. D'altro canto… sul pianerottolo c'è qualcun altro che…
Scuoto la testa con decisione: – Penso di no. Nessuno di sufficientemente mondano.
– Sì. – Prende un appunto rapido. Poi rilegge le righe già scritte a mezza voce: – ospiti… una donna… se n'è andata verso le undici… prima… – Alza la testa di scatto: – Ha idea di che cosa stesse leggendo?
Lo guardo fingendo stupore: – No. Non lo so. Ci mancherebbe.
Lui annuisce: – Certo. Lo stiamo chiedendo un po' in giro ma senza avere risposta. Piatti stava leggendo una bozza, qualcosa ricevuto da un altro scrittore, un pivello – suppongo – un novellino o un collega.
– Piatti leggeva spesso testi di altri. Dava consigli… che io sappia… Ahi! Non fare vedere che ne sai così tanto della sua vita. Non far nascere dei dubbi…
– Ah, immagino sia stato Piatti a dirglielo, a confidarsi.
Annuisco rigida: – Due chiacchiere in ascensore.
– Certo, certo, – sorride, – dopo che la ragazza se n'è andata, dopo le undici, ha più sentito qualcosa?
– No. Assoluto silenzio. È, anzi era, un tipo silenzioso, quieto.
– Sì, è vero. Il modo stesso di andarsene è stato molto in carattere… – Mi guarda fisso, senza più sorridere: – È assolutamente certa di non avere mai visto il libro che stava leggendo?
Insiste troppo. Qualcosa sa, temo. Nego, ma con una punta di incertezza. Certo, so benissimo di che libro si trattava. Piatti me ne aveva parlato: «il libro che mi ha portato quel tizio. Quello con gli occhiali spessi, quel mezzo matto. Anzi matto completo». L'aveva già respinto altre volte con diverse scuse ma quella volta il tipo l'aveva preso di sorpresa. «È il delirio di killer mistico, credo. Ma non l'ha scritto lui. Un'interminabile serie di omicidi narrati fin nei minimi particolari, interrotti da assurdità o bestialità pseudomistiche e da frasi senza senso, nemmeno scritte in italiano. O nella grafia latina. Forse ebraica. Un libro ossessivo, direi… quasi malato. Non saprei descrivertelo meglio…»
– Lo sa, vero?
Stringo le labbra: – Mi ha accennato qualcosa… un poliziesco o qualcosa del genere.
– Sì. – Mi guarda, serio, – ci siamo fatti una mezza idea del rapporti che esistevano tra voi due, signora. Nulla di troppo serio o di troppo impegnativo, certo… – si accarezza un narice con un gesto che mi appare, non so perché, parecchio volgare, – …ma qualcosa di reale. Il suo ex-dirimpettaio aveva una mezza passione per la fotografia, lo sapeva? E lei viene decisamente bene, in fotografia. – Mi guarda soddisfatto, quasi a sfidarmi. – Le ha mai mostrato i parti del suo genio?
Sorrido anch'io, cercando di stare al suo gioco: – Solo qualche volta. I nostri rapporti si erano un po' raffreddati, ultimamente. Ci vedevamo di meno. La ragazza di ieri sera è venuta per lui. Doveva essere una dimostrazione… vabbé, non importa… ma il libro, quel libro, perché è così importante?
– Vuole cambiare discorso? Non è che non mi interessi più il libro, ma abbiamo appena stabilito che voi due eravate intimi e…
– Intimi? No, no, no. Qualche volta abbiamo mangiato insieme. O siamo andati a letto insieme. Ma nulla di più. Non mi piaceva neppure troppo, il signor Piatti. O forse, semplicemente, alle volte si intuiva un po' troppo che in fondo era frocio. «Mi sono innamorato di te/ perché non avevo niente da fare…», tutto qui.
– Beh, ieri sera era qui con una ragazza…
– Per ferirmi. Per dire: «ecco, non sono io che sono culattone, sei tu che non funzioni».
Mi guarda con una curiosa espressione, una via di mezzo tra la commiserazione e la compassione. Pensa che Piatti mi abbia messo le corna e che io non abbia nemmeno il coraggio di ammettere che la cosa mi ha fatto soffrire.
– Immagino che lei non abbia un alibi, per iersera.
Lo fisso, nonostante tutto sorpresa: – Non sapevo si trattasse di un omicidio. No, non ho un alibi. Ma non l'ho ucciso io, se è per questo…
Fa un cenno secco di diniego: – Non è stato un omicidio. Forse un suicidio assistito.
– Beh, io non l'ho assistito.
– Ne sono convinto. Ma la cosa è più complicata, temo. Vorrei avere una copia del testo che stava leggendo… Come si chiamava l'autore?
– Non so se era l'autore. Comunque era Frigoni o Brigoni, una cosa del genere. Credo che tenesse copia dell'indirizzo… o forse era un biglietto?… comunque l'aveva nel suo secretaire… dio che nome ridicolo!
– Può essere, certo. Daremo un'occhiata nella sua scrivania – chiamiamola così, via – e cercheremo il signor Frigoni o Brigoni. Magari ha un'altra copia dello stesso libro. Per il momento la ringrazio.
Chino la testa come a dire: «non c'è problema», ma la realtà è che sto pensando ad altro. Perché tiene così tanto a leggere il libro portato da quell'occhialuto sfigato? Per un caso Piatti stava leggendo proprio quello la sera della sua morte. Una bella sfiga, a pensarci bene, anche se non credo che il libro abbia qualche legame con la sua morte.


Il funerale è stato una delusione. Probabile che mi aspettassi qualcosa di più vivace o, semplicemente, una partecipazione più attiva. O, forse, che l'editore mandasse qualcuno più importante di un banale funzionario. C'erano un paio di scrittori: un giovane poco pettinato, con l'aspetto di chi è appena uscito dal proprio letto ed è pronto a ritornarci di corsa, e una donna di mezza età, azzimata e truccata all'eccesso come una battona da strada sul viale del tramonto. I parenti erano pochi: un tizio ordinario che potrei giurare fosse suo fratello con una coppia di gemelli pallidi e silenziosi come altrettanti fidanzati della morte. E due anziani mogi, i genitori, ho immaginato. Poi c'era Calabrese, praticamente impossibile da distinguere dai necrofori vestiti in grigio.
Al termine della cerimonia – una breve sosta davanti a un forno crematorio attendendo che il corpo mortale di Piatti s'incenerisse ulteriormente – Calabrese mi attendeva accanto alla mia auto, parcheggiata a duecento metri dall'ingresso del cimitero.
Non è una bella giornata. Inizio di primavera, luminoso ma freddo e battuto da un vento incerto e volubile dal quale è impossibile difendersi. Rimpiango di non aver indossato la maglia a collo alto mentre sollevo il collo del cappotto.
– Ancora freddo, no?
Lo guardo senza sorridere. Gli mancano soltanto un paio di baffetti sottili per sembrare il braccio destro del capo di una cosca. – Infatti, – gli concedo, – ha ancora bisogno di chiedermi qualcosa o…
Alza una mano con un mezzo sorriso: – Per carità, per carità. È soltanto perché poi con Brighenti, si chiamava così, non sono riuscito a parlare.
Estraggo la chiave della macchina dalla borsa, tanto per fargli capire che di non-notizie come quella non ho bisogno. Non solo: ho fretta di tornare a casa.
– No, aspetti. La cosa interessante non è questa. Il fatto è che Brighenti è morto. La stessa sera, nello stesso modo e penso alla stessa ora che… Capisce?
Mi stringerei nelle spalle: questo genere di notizie stile «Voyager» non mi hanno mai stupito particolarmente. Ma non mi viene. In realtà debbo ammettere che la cosa mi ha colpito.
Calabrese se ne dev'essere accorto perché insiste: – Bruciato. Brighenti era a letto, a quell'ora. Stava leggendo, penso, seduto perché soffriva di una malattia alla gola per cui non poteva sdraiarsi. Chiunque potrebbe avanzare il dubbio che stesse fumando e che si sia addormentato con la cicca accesa in mano.
– Un altro idiota, così a occhio.
– Sì, si potrebbe anche supporre sia andata così. Ma non è possibile. Il problema è che Brighenti non fumava. Nessuno è riuscito a trovare una spiegazione ragionevole al rogo. Stava leggendo, ma del libro non è rimasto granché. Fatto sta che il caso di Brighenti non è ancora chiuso, anche se necessariamente lo sarà, e l'unico elemento curioso, o forse misterioso, è l'altro caso simile accaduto la stessa sera, quello di Piatti.
– Stavano leggendo lo stesso libro?
Non so come mi sia venuto in mente, ma capisco di aver fatto centro. Calabrese annuisce con un movimento esagerato: – Proprio così. Il frontespizio del libro è bruciato completamente ma qualche pagina è parzialmente scampata e confrontandole con i frammenti trovati addosso a Piatti è venuto fuori che con ogni probabilità si trattava dello stesso libro. Vi sono alcuni curiosi caratteri nel testo, forse ebraici. Qualcosa che non mi sarei atteso… – Si stringe nelle spalle, – ovviamente non si tratta di un'indagine ufficiale. La morte di Piatti è stata archiviata come incidente casalingo, ma non è escluso che riesca a ottenere una riapertura del caso.
Annuisco. Non mi entusiasma che il caso venga riaperto. Non ho voglia di deporre: «sì, avevo una relazione con il signor Piatti». Ma c'è qualcosa che mi spaventa in tutta quella storia. – Che genere di libro era? L'ha capito?
– Un manoscritto, ma non era di Brighenti, come forse vi era parso…
– No, non era suo. Brighenti non mi era simpatico e meno ancora lo era al povero Piatti, che non riusciva a liberarsi di lui e del libro. Secondo Brighenti si trattava di un documento eccezionale, unico. Per Bruno, Bruno Piatti, era una serie interminabile di perversi omicidi intervallati da considerazioni assurde. Il frutto di una mente malata, scritto senza preoccuparsi minimamente dell'eventuale lettore. L'autore era un folle, secondo lui. E non era uno facile nell'attribuire titoli al prossimo.
– Il libro, o ciò che ne resta, non ha nomi o qualcosa che permetta di capire chi ne è l'autore. D'altro canto… – tace cercando le parole, lo sguardo perso a terra, in un punto tra la mia ruota e quella anteriore dell'auto precedente. – …D'altro canto, dicevo, non è possibile – o forse non è ancora possibile – pensare che esista un legame tra il soggetto del libro e la morte dei suoi lettori. Non è vero?
Un brivido, inaspettato e inatteso.
Improvvisamente non ho più voglia di ritornare a casa da sola.


Passano alcuni giorni prima di risentire la voce di Calabrese.
Giorni tranquilli, fin troppo. Sono venuti quelli del gruppo immobiliare a mostrare l'appartamento di Piatti, ridipinto e restaurato, a tre o quattro interessati. Li ho spiati attraverso l'occhio magico della porta. Curiosamente, aspettavo sempre che da un momento all'altro saltasse fuori Piatti. Mi manca forse? Non so, non direi, ma ne sono troppo sicura. Fatto sta che sono contenta riconoscendo la voce del graduato dei carabinieri attraverso il citofono.
– Salga! – grido vivacemente.
– Buongiorno – la voce di Calabrese è più bassa di un'ottava. E stonata. Se ne sta sulla porta infilato in un vecchio impermeabile troppo grande per lui.
– …ma?
– Lo so, lo so, non sono troppo in forma. Sono a riposo in questo periodo. Anzi, devo dire che mi hanno sospeso.
– Ma non stia lì sulla porta, entri.
Scuote il capo: – Non sono qui, ufficialmente. Nella mia attuale situazione non posso fare nulla di ufficiale, onestamente. Meno che mai andare in giro a disturbare amici e parenti dei morti di recente. Ma ho le mie ragioni. come immaginerà. – Guarda dietro di sè per un attimo, con la fretta un po' allarmante di un'abitudine appresa da poco. – Ci sono state altre morti come… come quella di Piatti. Ha ricevuto di recente pacchi o avvisi di consegna?
– Sì, certo. Un attimo solo che… – mi allontano dalla porta per arrivare fino alla cucina. Urlo: – davvero non vuole entrare? – Ricevo una strana risposta, un suono simile a profondo gorgoglio che nessuno, io per prima, avrebbe attribuito a un essere umano. Esito per un istante, poi afferrò il foglietto giallo della posta e corro alla porta temendo se ne sia andato.
No, non se n'era andato, è sempre lì. Qualsiasi cosa sia diventato. 

 
Stamattina ho spazzolato i capelli. Quelli bianchi sono la netta maggioranza, ormai. Si spezzano e cadono nel lavabo. Se chiudo gli occhi lo rivedo. La fiamma trasparente che sale dagli abiti e dalla bocca, gli occhi bianchi rovesciati, la testa voltata all'indietro come quella di un gufo o di un barbagianni. E il suono, quel cupo gorgoglio che sembra arrivare da un altro, irraggiungibile luogo.
I carabinieri hanno constatato la morte. Che altro avrebbero potuto fare?
Gli hanno trovato addosso frammenti del libro, anzi dei libri. Calabrese li portava sempre con sè per paura di perderli o di chissà cos'altro. Deve averli letti e riletti fino a impararli a memoria. Poi devono essere arrivate le visioni. La sensazione di essere cercato, chiamato, inseguito. Ci sono stati altri casi, ultimamente. Secondo Calabrese altra gente ha ricevuto il libro – quel libro – ed è morta, arsa viva, in casa. Nessuno azzarda ipotesi, che io sappia, o anche soltanto a parlare di un piano. Eppure è difficile dire che non si tratta di un progetto. Un antico progetto che lentamente diviene realtà.
La ricevuta del pacco che mi aspetta alla posta è sempre lì, attaccata dalla bacheca della cucina. Momentaneamente inoffensiva. Il luogo di partenza sembra «Savona», ma, mal scarabocchiato com'è, si potrebbe anche leggere Sheol.
Teoricamente io non conosco nessuno, né da una parte né, spero, dall'altra.
Ma potrei sbagliarmi.
In fondo anche Piatti si è sbagliato, e altri come lui.
Se devo ricevere il libro, in qualche modo mi sarà consegnato.
E non potrò fare a meno di leggerlo. Di appassionarmi, inorridire, ardere – letteralmente – leggendolo.
Lentamente il contagio cresce e ci consuma.
Qualcosa di antico si è risvegliato e un libro attende ognuno di noi. Per leggerlo e perdere per sempre le parole, l'immaginazione e la vita.
Siamo tutti sotto giudizio.
Giudicati.
E condannati.


2 commenti:

consolata ha detto...

Mai accettare regali per posta! Bello, Max, lo ricordavo ma a rileggerlo è meglio. In fondo lo sappiamo tutti che leggere fa male e i libri sono uno strumento del diavolo. Buona pasqua e moltissimi smack.

Massimo Citi ha detto...

@Consolata: non so da dove mi sia venuta questa idea assurda di un'apocalisse che arriva per posta... D'altro canto il problema è la quantità di morti dei quali per millanta motivi non siamo informati. Prima di accorgerici davvero di un massacro potrebbero passare mesi... Un'apocalisse, poi, che riguarda soltanto i lettori mi sembra davvero il massimo dell'orrore. Grazie del commento e tantissimi auguri!!!