27.11.16

Un novembre pesante


È un bel po' di tempo che non scrivo nulla, qui. 
Il vero problema che sarebbe necessario scrivere qualcosa che meriti leggere e, sinceramente, non mi è venuto in mente nulla o quasi che meriti riferire nel blog. Per cui parlerò a ruota libera di ciò che ho fatto ultimamente, giusto perché non si dica che sto vergognosamente trascurando il povero Fronte&Retro.
Sto leggendo, come sempre, e ho appena terminato un'antologia firmata da Michael Moorcock uscita in Urania Millemondi, I riti dell'infinito, tre romanzi a suo tempo pubblicati prima del 1970, dei quali il primo meritevole di lettura mentre gli altri due sono tutto sommato rinunciabili e ho attaccato la seconda parte dell'antologia di Gardner Dozois: ne scriverò qui quando l'avrò terminata. Ho abbandonato la lettura di Chiusi dentro di John Scalzi – purtroppo non riesco ad apprezzare un testo fatto per 98% di dialoghi – e ho terminato Uomini senza donne di Murakami Haruki, antologia minore ma tutt'altro che disprezzabile del grande autore nipponico. Sto leggendo I motori della gravità di Caleb Scharf, poderoso (non ponderoso) saggio sui buchi neri dove si dimostra la loro importanza nella nascita delle galassie e un saggio di Giovanni Semi sulla Gentrification, ovvero il misterioso motivo per il quale Torino – e un'altra dozzina di metropoli – ha un centro delizioso e periferie sempre più scalcagnate e desolate
Ho partecipato alla seconda puntata di TuttoPoeuno speciale dedicato a un autore che molti ritengono (a torto) di conoscere fin troppo bene –, curato da Franco Pezzini e organizzato dalla Libera Università del Fantastico, andando così a scoprire alcuni dei racconti meno noti e riscoprendo la vena teatrale, paradossale, visionaria e divertente del grande autore. Una serata davvero divertente. 



Per il resto, sto tentando di riesumare un mio vecchio romanzo ma, sinceramente, sono stupefatto della quantità di lungaggini, degli interminabili dialoghi, delle parentesi rinunciabilissime, dello stile a suo tempo scelto con tanto di narratore onnisciente per un romanzo che all'epoca mi parve il massimo possibile e che ora mi agghiaccia a rileggerlo. In ogni caso un'ottima dimostrazione di come sia facile, anzi elementare, illudersi sulle proprie capacità di autore, soprattutto quando si è alle prime armi. All'epoca mi sembrava tutto perfettibile, certo, ma in ogni caso stupendo. Adesso non chiederei a nessuno di leggerlo, se non come punizione. 
Mentre stendo questo rinunciabile post ho di fronte mia moglie che da giorni sta lavorando tutti i pomeriggi – a una serie di documenti per la scuola, rinunciando – e ne immagino la sofferenza – a correggere compiti. Il vero problema è la quantità di tempo che la scuola le sottrae alla vita quotidiana. È parere comune che un'insegnante sia un individuo fortunato che lavora non più di diciotto ore la settimana e che possa disporre del resto del tempo come preferisce. Bene: non è affatto vero. Mia moglie normalmente trascorre due o tre ore al pomeriggio a correggere i compiti e a preparare le lezioni. Un paio di pomeriggi la settimana è inchiodata da riunioni ordinarie o straordinarie, trascorre buona parte dei week-end a stendere documenti di dubbia utilità ma tassativi e teoricamente necessari per l'anno scolastico in corso... In sostanza, fatti i conti, direi che mediamente la sua settimana di lavoro va da un minimo di trenta-trentacinque ore fino a un massimo di cinquanta nel periodo degli scrutini.
Ovviamente possono esistere insegnanti che fanno un cà, ma sospetto che al massimo siano esistiti ma che, al momento, siano divenuti rari come mosche arcobaleno. La «Buona Scuola» di Renzi si è rivelata, con il passare del tempo, la fabbrica di un surplus di documenti scolastici che vengono scritti senza che nessuno li legga. E anche stasera ho il sospetto che mia moglie riuscirà a staccarsi da pc soltanto all'ora di cena. 
E noi ceniamo tardi. 


Ci sarebbe poi il famoso referendum del quale parlare, ma non ne ho voglia. Una volta ripetuto che voterò NO, come ho scritto in questo post, penserò ad altro. Arrivederci a presto!


 

10.11.16

In Trump we don't trust


Non ho passato la notte a guardare come andavano le elezioni americane. Rassicurato del New York Times che dava la Clinton con l'80% o già di lì di probabilità di vittoria me ne sono andato beatamente a dormire, soltanto leggermente infastidito per i primi exit-pool che davano Trump vincente in Alabama e in un altro stato del profondo Sud. «Normale» dicevano i presenti nello studio di Rainews 24, «Sono stati repubblicani».
Alle 7.10 del mattino dopo, ieri per la precisione, ho sentito le prime notizie e la prima reazione è stata l'incredulità. Trump aveva vinto. Aveva preso tutti gli stati in equilibrio, i Swinging States,  aggiungendovi un paio di stati di antica tradizione operaia nella zona dei grandi laghi. 
In mente mi è ripassato, disordinatamente, il "programma" – ovvero le promesse sconsiderate, folli, idiote e menzognere – di Trump, concludendone che molti americani, non soltanto i repubblicani, se l'erano bevute, fino in fondo. 
Ma Trump aveva avuto il fiuto di ricordarsi di operai, impiegati, gente che aveva perso il lavoro, ceto medio impoverito e fare loro promesse da pifferaio, convincendoli che la colpa della loro situazione era la globalizzazione – cosa peraltro vera – e che bloccando l'immigrazione e imponendo dazi crescenti sulla produzioni cinesi e messicane avrebbe ridato loro un lavoro. Ha incontrato minatori promettendo loro di far rinascere l'industria del carbone, ha promesso di rilanciare l'industria del petrolio, ha promesso di non mandare più americani in giro per il mondo a farsi accoppare, «che si arrangino europei e giapponesi a difendersi, e comunque non più a spese nostre». Ha promesso, minacciato, lusingato senza fermarsi mai. Nonostante una condotta personale quantomeno discutibile ha convinto i presbiteriani, i cattolici e in generale tutti i cristiani che lui li avrebbe difesi dall'aborto e dalle mille piaghe della società moderna... Insomma, è riuscito a promettere tutto, ma anche il suo contrario a tutti. Ha dato la colpa della situazione a musulmani, ispanici, neri, donne laureate e altre minoranze cercando il voto dei bianchi – maschi e femmine con il grado più basso di istruzione – e ha vinto, giocando sulla loro paura. [*]



In realtà Trump ha preso più o meno un milione di voti in meno di Mitt Romney, il candidato a suo tempo battuto da Barack Obama, ma Hilary Clinton ha perso sette milioni di voti (7.000.000!). Come ha detto un giornalista del NYT: «Nessuno si mobilitava per Hilary Clinton, al massimo la si votava ma senza entusiasmo».
Che si potesse considerare la Clinton come un alfiere della filosofia del Change era ovviamente ridicolo.  Peggio ancora pensare fosse un esponente della sinistra. Hilary Clinton era ed è un esponente della storica classe politica americana, capace di rassicurare al mattino gli esponenti di Goldman & Sachs e promettere al pomeriggio il taglio delle tasse universitarie a un comizio democratico. Capace di parlare di pace e organizzare l'attacco alla Libia in qualità di segretario di stato e votare a favore dell'invasione dell'Iraq. Ripensandoci, davvero un colpo da maestro. Ma sarebbe stata comunque un presidente decente, se non altro per l'esperienza precedente. E sarebbe stata la prima donna presidente. Resta da capire come mai questo elemento non sia stato in qualche modo decisivo. Ma forse in qualche modo lo è stato, visto che il 70% dei maschi americani col grado più basso di istruzione ha votato per il vero macho Trump.
Nota a latere: a rigore la Clinton per numero di voti avrebbe vinto con un vantaggio di 200.000 voti, ma il sistema americano, con la sua divisione per stati, permette di vincere perdendo e viceversa. 


Ciò su cui merita riflettere è la crescente intolleranza – americana ma non solo – verso il ceto politico di mestiere e l'imprevisto favore di cui si trovano a godere individui che non ne fanno parte. Non so a voi, ma il successo di Donald Trump – notoriamente simpatizzante di Benito Mussolini – mi ricorda il singolare (e malaugurato) successo di certi individui eletti negli anni successivi alla crisi del 1929. In Germania, tanto per esemplificare... 
A questo punto, comunque, abbiamo a che fare con un presidente degli Stati Uniti che è un fenomenale ignorante in termini politici, capace di vendere frigoriferi agli Inuit – come un certo B. che in vent'anni ha contribuito a rovinare l'Italia – ma incapace di organizzare una politica a lungo termine, con una mentalità da imprenditore, quindi convinto che i suoi provvedimente debbano piacere, non essere efficaci. 
A questo punto si tratta di capire quali saranno i suoi ministri, Si avvarrà dei repubblicani di seconda fila, i più fanatici e intolleranti, o conterà su personalità perlomeno decenti, sia pure di destra? O utilizzerà senza risparmio esponenti e manager dell'industria petrolifera e carboniera, le cui azioni hanno raggiunto nuovi record di valutazione dopo la sua elezione? Resta il dato di fatto che uno come Donald Trump è abituato a decidere in prima persona e quindi immagino avrà non poche difficoltà a lavorare con personalità non troppo defilate e con pareri occasionalmente diversi dai suoi. Con veri politici, in sostanza, o con altri imprenditori. Il rischio è quello di perdere il favore in qualche modo rubato ai poveretti che l'hanno votato e suppongo che Trump non intenda perderlo.
Sarà interessante vedere – anche se lo sarebbe di più se abitassi su Marte – come governerà Trump. E che cosa lascerà dietro di sé. 
In campagna elettorale abbiamo visto Supertrump contro Gaia, convinto (a parole) che il pianeta non si stia surriscaldando: auguriamoci che le sue promesse rimangano tali.  


[*] Questo il commento di Michael Moore su Donald Trump: «questo miserabile, ignorante, pericoloso pagliaccio part-time e sociopatico a tempo pieno, sarà il nostro prossimo presidente»