10.11.16

In Trump we don't trust


Non ho passato la notte a guardare come andavano le elezioni americane. Rassicurato del New York Times che dava la Clinton con l'80% o già di lì di probabilità di vittoria me ne sono andato beatamente a dormire, soltanto leggermente infastidito per i primi exit-pool che davano Trump vincente in Alabama e in un altro stato del profondo Sud. «Normale» dicevano i presenti nello studio di Rainews 24, «Sono stati repubblicani».
Alle 7.10 del mattino dopo, ieri per la precisione, ho sentito le prime notizie e la prima reazione è stata l'incredulità. Trump aveva vinto. Aveva preso tutti gli stati in equilibrio, i Swinging States,  aggiungendovi un paio di stati di antica tradizione operaia nella zona dei grandi laghi. 
In mente mi è ripassato, disordinatamente, il "programma" – ovvero le promesse sconsiderate, folli, idiote e menzognere – di Trump, concludendone che molti americani, non soltanto i repubblicani, se l'erano bevute, fino in fondo. 
Ma Trump aveva avuto il fiuto di ricordarsi di operai, impiegati, gente che aveva perso il lavoro, ceto medio impoverito e fare loro promesse da pifferaio, convincendoli che la colpa della loro situazione era la globalizzazione – cosa peraltro vera – e che bloccando l'immigrazione e imponendo dazi crescenti sulla produzioni cinesi e messicane avrebbe ridato loro un lavoro. Ha incontrato minatori promettendo loro di far rinascere l'industria del carbone, ha promesso di rilanciare l'industria del petrolio, ha promesso di non mandare più americani in giro per il mondo a farsi accoppare, «che si arrangino europei e giapponesi a difendersi, e comunque non più a spese nostre». Ha promesso, minacciato, lusingato senza fermarsi mai. Nonostante una condotta personale quantomeno discutibile ha convinto i presbiteriani, i cattolici e in generale tutti i cristiani che lui li avrebbe difesi dall'aborto e dalle mille piaghe della società moderna... Insomma, è riuscito a promettere tutto, ma anche il suo contrario a tutti. Ha dato la colpa della situazione a musulmani, ispanici, neri, donne laureate e altre minoranze cercando il voto dei bianchi – maschi e femmine con il grado più basso di istruzione – e ha vinto, giocando sulla loro paura. [*]



In realtà Trump ha preso più o meno un milione di voti in meno di Mitt Romney, il candidato a suo tempo battuto da Barack Obama, ma Hilary Clinton ha perso sette milioni di voti (7.000.000!). Come ha detto un giornalista del NYT: «Nessuno si mobilitava per Hilary Clinton, al massimo la si votava ma senza entusiasmo».
Che si potesse considerare la Clinton come un alfiere della filosofia del Change era ovviamente ridicolo.  Peggio ancora pensare fosse un esponente della sinistra. Hilary Clinton era ed è un esponente della storica classe politica americana, capace di rassicurare al mattino gli esponenti di Goldman & Sachs e promettere al pomeriggio il taglio delle tasse universitarie a un comizio democratico. Capace di parlare di pace e organizzare l'attacco alla Libia in qualità di segretario di stato e votare a favore dell'invasione dell'Iraq. Ripensandoci, davvero un colpo da maestro. Ma sarebbe stata comunque un presidente decente, se non altro per l'esperienza precedente. E sarebbe stata la prima donna presidente. Resta da capire come mai questo elemento non sia stato in qualche modo decisivo. Ma forse in qualche modo lo è stato, visto che il 70% dei maschi americani col grado più basso di istruzione ha votato per il vero macho Trump.
Nota a latere: a rigore la Clinton per numero di voti avrebbe vinto con un vantaggio di 200.000 voti, ma il sistema americano, con la sua divisione per stati, permette di vincere perdendo e viceversa. 


Ciò su cui merita riflettere è la crescente intolleranza – americana ma non solo – verso il ceto politico di mestiere e l'imprevisto favore di cui si trovano a godere individui che non ne fanno parte. Non so a voi, ma il successo di Donald Trump – notoriamente simpatizzante di Benito Mussolini – mi ricorda il singolare (e malaugurato) successo di certi individui eletti negli anni successivi alla crisi del 1929. In Germania, tanto per esemplificare... 
A questo punto, comunque, abbiamo a che fare con un presidente degli Stati Uniti che è un fenomenale ignorante in termini politici, capace di vendere frigoriferi agli Inuit – come un certo B. che in vent'anni ha contribuito a rovinare l'Italia – ma incapace di organizzare una politica a lungo termine, con una mentalità da imprenditore, quindi convinto che i suoi provvedimente debbano piacere, non essere efficaci. 
A questo punto si tratta di capire quali saranno i suoi ministri, Si avvarrà dei repubblicani di seconda fila, i più fanatici e intolleranti, o conterà su personalità perlomeno decenti, sia pure di destra? O utilizzerà senza risparmio esponenti e manager dell'industria petrolifera e carboniera, le cui azioni hanno raggiunto nuovi record di valutazione dopo la sua elezione? Resta il dato di fatto che uno come Donald Trump è abituato a decidere in prima persona e quindi immagino avrà non poche difficoltà a lavorare con personalità non troppo defilate e con pareri occasionalmente diversi dai suoi. Con veri politici, in sostanza, o con altri imprenditori. Il rischio è quello di perdere il favore in qualche modo rubato ai poveretti che l'hanno votato e suppongo che Trump non intenda perderlo.
Sarà interessante vedere – anche se lo sarebbe di più se abitassi su Marte – come governerà Trump. E che cosa lascerà dietro di sé. 
In campagna elettorale abbiamo visto Supertrump contro Gaia, convinto (a parole) che il pianeta non si stia surriscaldando: auguriamoci che le sue promesse rimangano tali.  


[*] Questo il commento di Michael Moore su Donald Trump: «questo miserabile, ignorante, pericoloso pagliaccio part-time e sociopatico a tempo pieno, sarà il nostro prossimo presidente»

2 commenti:

Glò ha detto...

Sono rimasta perplessa di fronte a certe reazioni, dal "è la democrazia, baby!", al "la Clinton è dentro il sistema", al "Trump è un uomo del popolo, va nei cantieri", al "la Clinton avrebbe portato gli Usa in guerra", ecc. ecc. ecc. XD

Non so quale idea si abbia della democrazia, ma essa non è entità e non è per forza espressione di ciò che è sensato e/o più giusto. Si tratta dell'esercizio di un diritto, che viene spesso vissuto con toni da tifo, ovunque, senza pensare, senza avere conoscenze delle politiche sostenute dai rappresentati (che poi tali politiche siano portate avanti o no...). Un diritto che non si comprende appieno, perché significherebbe tirare in ballo anche i doveri e quella cosa là, la coscienza (ohibò).
Stupisce che in fase di forte crisi si voti un Trump? No, si sperava caso mai non lo si votasse massivamente.
Trump rappresenta l'antidoto forte alle paure, alla rassegnazione, alla confusione, alla possibile perdita dei privilegi, perché cavalca questi stessi spauracchi e quasi li annienta con la sua ignoranza (finta, forse vera, ma non è questo che interessa, bensì l'effetto ottenuto).
Vi costruisco un bel muro, anzi no! Meglio, lo facciamo costruire a LORO! Yuppi!!! S'è capito, no?
certo che si tagliano i fondi per la cultura, intesa nel senso più lato possibile. Ovviamente...
Ultima osservazione: i repubblicani stessi non erano totalmente allineati e quelli che hanno osteggiato Trump hanno finito per aiutarlo: è diventato l'uomo "esterno" rispetto al "sistema" vs Clinton, la donna corrotta. Non che non lo sia, ma non si può votare un individuo o un altro credendo alle favole, tutto qui.
Bella la tua ricca riflessione, buona serata! ^^

Massimo Citi ha detto...

@Giò: grazie per il commento sul post, innanzi tutto. L'avrei scritto ieri, per la verità, ma non mi fidavo delle mie sensazione "a caldo". Che si può aggiungere al tuo intervento? Ben poco, direi. La tentazione di seguire "l'Uomo Forte" nelle situazioni di profonda crisi è una costante umana, già avvenuta, come sappiamo. E l'atteggiamento da ultras nelle discussioni è la conseguenza di una scelta dettata da sogni fallaci e dalla paura. E la paura è una pessima consigliera.