26.4.13

Il maestro Petöfi e Mr. Monkey ovvero la Danza della scimmia

Un racconto dal titolo La danza della scimmia, un calco e un divertissement molto evidentemente ispirato a Mr. Stevenson e al suo notissimo Dr. Jeckyll e Mr. Hyde. Un racconto che fu utilizzato dall'ottimo Franco Pezzini per introdurre il suo articolo sulla letteratura vittoriana apparso su Carmilla, «Victoriana». 
Pubblicato su Fata Morgana 11, Musica, note, pause, silenzi, fu in realtà scritto molto tempo prima, all'inizio del nuovo secolo, come semplice scherzo letterario. Probabilmente ciò che mosse la mia fantasia fu la capacità misteriosa di un pezzo banale di perseguitare a lungo e senza pietà la mia povera mente. 
Un racconto al quale mi sono affezionato col tempo e che spero qualcuno abbia voglia di leggere. 


 
Su un unico punto concordavano: ed era la sensazione di una depravazione indefinita che il fuggitivo lasciava in chi l’aveva veduto…
R.L.Stevenson, Lo strano caso del Dr. Jeckyll e Mr. Hyde


La notte abbagliata dalle luci della città ora non è più la stessa. Per me era una scheggia sottile di infinito quotidiano, un brivido da tenere sotto controllo. Mi bastava alzare il viso – allora – lasciar correre lo sguardo e mi sentivo già meno prigioniero.
A sollevare il volto al cielo con me adesso c’è la Scimmia, e tutto ciò che Lei riesce a vedere è il baluginare aranciato di mille lampioni e di mille stanze accese, la luce opaca di una cupola chiusa che ci tiene avvinti alla terra.
La sento cullare nella mente – la mia mente – i suoi insulsi timori, le sua gioie puerili e i suoi stupori idioti. La sento scuotersi di brividi sciocchi, che mostrano, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la meschinità della sua anima, la povertà dei suoi sentimenti.

Questa sera mi sono trascinato fino a casa, procedendo solo per le vie illuminate, minacciato dal rotolare delle carrozze e dal passo frettoloso dei miei simili. Ho tenuto la testa china nel bavero del soprabito, come un fantasma o una caricatura, lo sguardo fisso al suolo, e le ho impedito di abbagliarmi ancora una volta con i suoi ridicoli presentimenti, i suoi penosi tremori.
Grant, il servitore, non mi aspettava tanto presto e al mio arrivo l’ho visto impallidire. Sicuramente si è chiesto chi tra noi due – io, Julian o lei, la Scimmia – l’avrebbe interpellato.
– Vado nel mio studio. Fammi mandare un tè, ben caldo.
Ho salito i gradini tre a tre senza neppure appoggiarmi al mancorrente.
È questo surplus di valentia fisica, questa energia animale, sinistra e assurda in un uomo di sessanta e più anni, a farmela chiamare Scimmia. Ma la sua povertà mentale, la sua ristrettezza volgare è di un tipo particolare e non ha nulla della serena innocenza stuporosa di tante creature dell’altro sesso.
Non che nella mia vita siano mancate le occasioni per apprezzare doti e virtù muliebri. Ma la severità della mia formazione, l’impegno rabbioso speso per giungere al vertice del mio lavoro mi hanno sempre tenuto lontano dalla luce intensa ma capricciosa della femminilità. Ho diffidato della loro imprevedibilità, della loro volubilità, degli ingovernabili cicli e umori che ne governano il pensiero.
Come è ovvio sono giunto a quest’età rispettabile avendo conosciuto, come tutti, i piaceri meno nobili, ma ne ho sempre tratto un senso di delusa fatica, una sorta di ansia strabica, volta non tanto al futuro quanto al passato, al pensiero del mio abbandono impotente, ipogeo, semi inconscio.
Ma la Scimmia è altro da tutto ciò. Il suo carattere si soddisfa di un ingenuo mostrarsi, uno sciocco esibirsi, dell’impulso a montare in piedi su uno sgabello a gorgheggiare canzoncine senza senso, abbassare i pantaloni e mostrare il deretano, scivolare in una coprolalia demente e sogghignante.
Sono ormai quasi tre mesi che tengo chiuso in cassaforte il maledetto foglio, resistendo alla tentazione di guardarlo un’ultima volta, come se studiandolo con maggiore attenzione fosse possibile spezzare l’incantesimo che lo governa.
Più volte ho desiderato sbarazzarmene, ma un residuo di considerazione per i miei simili me lo impedisce. O forse ciò che mi trattiene è la superbia più cieca, che si ritiene soddisfatta nel sapermi l’unico bersaglio, in un certo senso l’oggetto definitivo di una magia che da tempo immemorabile aveva solo me per destinatario.
Un bussare delicato interrompe i miei pensieri.
– Avanti.
La mia voce non mostra incrinature, grazie a Dio non ho avvertito le consuete forzature di tono che preludono al cachìnno, alla sua lugubre risata ebete.
Stephanie entra con un leggero inchino e posa la teiera su un tavolino accanto al pianoforte.
– Grazie, vai pure.
Mi guarda. È solo un attimo, un moto, quasi involontario, ma mi rendo conto che L’ha riconosciuta. Un nulla, un’inezia, un ottavo di tono o forse meno, ma quanto basta per farle dire: …ecco, in questo momento Julian Petöfi è uscito da se stesso, è scivolato da un lato come una vecchia porta, mostrando il volto della Scimmia.
– Che cosa c’è da guardare? Che cos’hai, che cosa c’è? – Si inchina frettolosa e si dirige verso la porta. – Nulla, barone, nulla…
– Vattene, sparisci. Capito? Vai fuori! Gehest du heraus!
Credo ostinatamente che la mia lingua natia sia immune dalla Sua influenza. Ovviamente si tratta di un’illusione, ma non tutti intendono abbastanza il tedesco da cogliere la Sua eventuale presenza e questo mi lascia qualche secondo, qualche attimo per controllarmi, per riconquistare la mia mente.
L’urto della porta sbattuta ha echeggiato molto a lungo per la casa. Grant sarà in cucina con la cuoca e Stephanie li avrà raggiunti, ancora affannata per la corsa, per metterli al corrente del progredire della mia decadenza.
La speranza di apparire semplicemente come un vecchio bizzoso, ben lungi dal soddisfarmi, mi pone se non altro in una categoria molto frequentata e, tutto sommato, di scarso rilievo. Nel vicinato fantesche, servitori e governanti mi riterranno degno compare dei vari Sir Hewitt o Mr. Caldwell che, capricciosi come bambini, sembrano provare un gusto particolare nel tiranneggiare parenti e membri della servitù.
Ecco, in questo i miei famigli sono se non altro fortunati di avere solo il sottoscritto a guastar loro la digestione. Non ho figli né moglie né amanti e la mia solitudine è una garanzia per rare occasioni di incontro e di rammarico.
Ma qualcuno forse leggerà queste righe ed è in onore di questo ipotetico lettore che racconterò quanto mi è accaduto, per ciò che mi è possibile.


Il foglio non è altro che il frammento di uno spartito, ingiallito dal tempo. In un angolo in basso, liso e strappato, si legge incompleto il nome di una tipografia veneta, e un numero minuscolo all’altro vertice del foglio informa che si tratta della quinta pagina della composizione.
Mr. Honeybloom, l’antiquario, non aveva saputo darmi alcun particolare in proposito. «A essere sincero, Barone Petöfi, non so neppure come sia giunto in mio possesso. Probabilmente si trovava all’interno di un in-folio venduto a un collezionista, ma potrebbe anche essere uscito da una rilegatura o dalla fodera di un divano.» Mi aveva dedicato uno dei suoi sorrisi frutto di una lunga pratica, mostrando gli incisivi gialli molto distanziati. «Anche volendo approfittare del vostro interesse non potrei onestamente fissare un prezzo, né alto né basso.»
Lo spartito, o meglio il frammento, era stato stampato su carta di buona qualità e – nonostante l’età almeno ragguardevole – conservava miracolosamente nitida la grafia musicale, come fosse uscita dalla tipografia non prima della settimana avanti.
Cosa avrei potuto mai farmene di un frammento di una composizione sconosciuta opera di un autore ignoto?
Mi vedo qui costretto ad una confessione, tanto più penosa quanto più mi sembra sproporzionato e assurdo il contrappasso che la mia misera ambizione ha ricevuto.
Da tempo stavo lavorando a una sinfonia per violino e orchestra, nata dal desiderio di ritornare ad armonie più serene e classiche, meno farsesche e reboanti, come è pure recentemente accaduto di udire in Francia ad opera di Monsieur Berlioz. È egli infatti un tipo singolare di compositore per sordi che non manca tuttavia di trovare estimatori e persino sostenitori arrabbiati, come se la musica potesse onorarsi di alterchi da osteria e battibecchi di ubriachi .
Mi illudevo che quel frammento finito così singolarmente nelle mie mani potesse essere la chiave per giungere a terminare il mio terzo movimento, che da tempo languiva, e mi parve un inaspettato aiuto del destino averlo trovato, quasi un incoraggiamento a terminare.
«Vi offrirò quello che ho nel taschino del panciotto, se la cosa vi soddisfa.»
«A vostro piacere.»
Con mio stupore nel taschino avevo dimenticato una ghinea d’oro, ed era stato con un certo disappunto che l’avevo porta a Mr. Honeybloom.
Questi l’aveva intascata con un dignitoso cenno del capo, senza tuttavia nascondere una punta di stupore.
Mi ero congedato in fretta, di umore divenuto improvvisamente cupo, e mentre tornavo a casa, spingendo rabbiosamente un passo dopo l’altro, dentro di me cresceva un debole, inerte stupore nel constatare l’intensità dell’ira improvvisa che mi trascinava a passo di corsa.

Giunto nel mio appartamento avevo posto il foglio sul leggio del pianoforte e d’impeto, senza interrompermi, avevo eseguito il breve motivo stampato, un frammento di sonatina o di lied.
Quando anche l’eco dell’ultima nota si fu spenta mi venne spontaneo portarmi le palme delle mani aperte al volto per cercare un inutile conforto.
Come direttore d’orchestra mi era capitato più volte di ascoltare musiche dozzinali, composizioni senza grazia né gusto, esecuzioni risibili, particolarmente su quei piccoli palchi posti davanti ai caffè, dove appassionati membri delle forze armate si illudono di elevare il gusto di servette e bottegai, ma non mi era mai accaduto di udire un insieme tanto osceno e idiota, un tale fastello di banalità melodiche, ripetizioni, balbettii ritmici, enfasi demente e sciatteria.
Quella sonatina era insieme sguaiata e banale, reboante e romantica, di quel romanticismo idiota che affascina le sarte e le sgualdrine e che induce compassati gentleman a frasi altisonanti e ridicole.
Con un rumore secco avevo chiuso il coperchio del pianoforte, resistendo alla tentazione di concedermi, per ritemprarmi, qualche nota di Haydn.
Rassegnato ad aver gettato al vento una ghinea d’oro che avrebbe potuto trovare miglior destinazione, avevo chiamato Grant per avvisarlo che non avrei desinato in casa.
Mentre mi cambiavo in perfetta solitudine, com’era mio costume, mi ero accorto di ricordare distintamente un passaggio ostinato di quell’oscenità – un tema tanto languido quando stolto – ma sul momento non avevo dato troppa importanza alla cosa.
Più tardi, seduto al tavolo del club, avevo ordinato il mio consueto vitello al ginepro accompagnato da una pinta di ale scozzese. Mentre attendevo non mi era parso strano tamburellare sul tavolo un ritmo musicale con le dita. Non è una cosa che tutti fanno, dal più umile garzone di maniscalco fino all’erede dell’Impero?
Ma il mio ipotetico lettore credo abbia già compreso qual era il tema che guidava le mie dita.
Mi interruppi avvertendo un brivido. Avrei voluto punire la mano colpevole e la bocca atteggiata a fischio che stava per accompagnarla. Decisi che doveva trattarsi di stanchezza, forse di un principio di costipazione. Mangiai senza alcun gusto il mio piatto preferito e rientrai prima del solito, disertando il tavolo da gioco di Mr. Utterson.
Anche mentre rientravo a casa cercavo di tenere rigidamente sotto controllo la mia fantasia musicale, resistendo alla tentazione di eseguire nuovamente quell’abominio, soffocando alla prima nota il suo incedere sornione che sentivo pronto a riprendermi nuovamente non appena la stanchezza mi avesse vinto.
Ricordo distintamente il cielo cristallino di quella strana sera di vento, tanto rara nel Regno Unito. Ricordo la pena nel congelare il cuore anche alla vista di un cielo gremito, scintillante, il cielo di un’anima che conosca la Grazia.
Mentre proseguivo avevo però finito per mutare avviso e giunto a casa avevo deciso di prendere, come si suol dire, il toro per le corna.
Avevo nuovamente eseguito quel tema anonimo, una volta e poi ancora, ancora e ancora.
E ad ogni esecuzione sentivo il mio essere spezzarsi in due: insieme godevo di quella musica tanto corriva e sciocca e me ne ritraevo inorridito. E il piacere oscuro che mi divorava, unito al desiderio di comprendere quale malia mi avesse conquistato, mi spingeva a ripetere il motivo, come se nella schiena mi fosse stata infissa una manovella che un saltimbanco disperato continuava ad azionare per la via deserta.
Era giunta l’alba quando, stanco e allucinato, caddi di schianto sul divano abbandonandomi all’incubo.
Per un mese o più quel frammento fu la mia condanna.
Le sue note, retoricamente cupe o stupidamente squillanti mi accompagnavano ovunque, le ravvisavo in qualunque brano o sinfonia, mi spingevano a rabbiose discussioni con i musicisti che accusavo di nefandezze inesistenti, di errori marchiani di intonazione, persino di aver confuso una pagina dello spartito con l’altra o, per sbadataggine, di averne girate due insieme.
Ricordo ancora distintamente, con una pena che ha perso l’opprimente aura di vergogna dei primi tempi per vestirsi di malinconia, le lunghe passeggiate serali tra gli alberi bagnati dal gelo, i balbettii della fantasia invasa, le febbrili elucubrazioni, le ipotesi, le follie bizzarre che mi accompagnavano. Anche se non posso ricordare chiaramente il procedere di quei pensieri, rammento perfettamente il rancore che li risvegliava, le sterili rivincite e le umiliazioni immaginarie che mettevo in scena come un teatrante senza gusto né genio, il colore d’ombra di ogni mio momento, dominato dal ritmo languido e volgare di una danza oscena.


L’esecuzione della sinfonia che era stata affidata alla mia orchestra dovette essere dapprima rimandata e infine annullata, con enorme costernazione del pubblico del Royal Theatre. E ciò che è peggio di tutto, io, il maestro Petöfi, avevo perduto ogni dignità personale, giungendo ad accusare impresari e musicisti di aver ordito una congiura contro di me per potermi sostituire.
«Si tratta solo di un po’ d’esaurimento, Barone Petöfi, nulla di più. Se avrete la bontà di… »
«State zitto, Mr. Baincroft, per carità. Quale esaurimento? Ditemi piuttosto dov’è il direttore inglese destinato a sostituirmi. Me lo dovete. Almeno questo me lo dovete! Parlate, siate sincero!»
Il massiccio impresario scuoteva inutilmente il capo, sentendomi così sragionare, e il suo naso rosso e gonfio seminascosto dal fumo della pipa si muoveva come il piccolo diavolo di una recita di burattini. E anche mentre parlavo, mentre cercavo di ritrovare il filo smarrito della mia essenza, sentivo quel motivo echeggiarmi nella mente, lo sentivo inebriarmi e stordirmi, rendermi ridicolmente magniloquente o cupamente sospettoso, penoso come qualunque uomo che abbia definitivamente smarrito il senno.
Non desideravo altro che ritornare a casa, aprire il pianoforte ed eseguire una volta di più la Danza della Scimmia, come avevo deciso di chiamare quell’abominevole composizione, fino a quando un sonno greve come una maledizione non fosse finalmente arrivato a cancellarmi dal mondo.


Nulla della mia vita quotidiana sembrava risparmiato da quel morbo oscuro. La mia sinfonia era divenuta una confusa ripetizione del motivo che mi ossessionava, i miei pasti erano divenuti un calvario condotto a una velocità da cinematografo, le mie relazioni erano fatte di lunghi silenzi seguiti da stupefacenti confessioni che ogni volta inventavo per interlocutori che, sicuri di conoscere il vecchio amico Petöfi, si vedevano ogni volta presentare un volto inaspettato e sconcertante di me, che li lasciava interdetti, talvolta dolorosamente colpiti, più spesso semplicemente inorriditi.
Presi a bere, e in quei momenti le mie confessioni, i miei ricordi, assumevano coloriture licenziose, indugiavano su particolari osceni e sgradevoli, su passioni stravaganti e su ancor più stravaganti esercizi che ripercorrevano le triste vicende narrate da un Marchese che, con cinica ammirazione, si volle definire Divino.
Nemmeno quando mi fu revocata l’iscrizione al club ciò che restava del mio autocontrollo riuscì a frenarmi. Mi misi a frequentare locali proletari, le infime bettole di portuali e marinai. E la Scimmia mi faceva da compagno e da guida, conducendomi come il cocchiere di Satana nelle viscere della città di Dite, risvegliando in me l’ebbrezza della caduta rovinosa, della dignità calpestata e violata.
Una mattina di dicembre mi risvegliai in un sordido cortile, sdraiato tra patate marcite e vecchi panni che sapevano di rancido e di muffa. Aprii gli occhi sul cielo di madreperla, la mente miracolosamente silenziosa e vuota.
Fui subito in piedi, barcollante, irrigidito dal freddo, ma ben vivo e incredulo.
Non persi tempo a cercare di ricordare cosa mi aveva condotto lì e quasi distrattamente constatai l’assenza del portamonete e dell’orologio donatomi quindici anni prima da Lord Halifax. Si trattava di inezie, banali incidenti: la Scimmia mi aveva abbandonato, questo era l’importante.
Giunsi a casa trafelato, sporco, zoppicante.
Persino Grant, che pure era giunto ad abituarsi ai miei modi bizzarri, ai miei scatti d’ira senza ragione, alle ore sconvenienti delle mie sortite e delle mie ritirate, non poté celare il suo smarrimento, un sentimento che sapevo come in lui confinasse col disprezzo.
Non me ne stupivo né potevo volergliene, io stesso ero giunto a provare una nausea iraconda, un disgusto sovrano eppure impotente verso ciò che la Scimmia mi induceva a fare.
Appena entrato nel mio studio afferrai lo sciagurato spartito e lo nascosi in cassaforte, sotto una pila di altri incartamenti e documenti, in modo che i miei occhi non potessero posarsi su di lui neppure casualmente.
Compiuta quell’operazione mi gettai sul divano e chiusi gli occhi. Ma i miei nervi sovreccitati non vollero concedermi neppure un attimo di respiro. Ahimè, non avevo dimenticato la Danza, sapevo che risuonava ancora dentro di me, remota, indistinguibile, come eseguita in un lontano padiglione, ma ben presente. Restavo immobile, aggrappato al controllo di me appena recuperato, ma, come un relitto abbandonato, temevo e sapevo che presto sarebbe giunta una nuova tempesta a spingermi per il mare e ad affondarmi, vincendo definitivamente la mia resistenza.
Stephanie stava spolverando i soprammobili del corridoio prospiciente al mio studio. La sentivo avvicinarsi, avvertivo il suo passo irregolare interrotto da soste frequenti e il tonfo leggero degli oggetti sollevati e posati nuovamente. Un canticchiare sommesso la accompagnava, un canto innocente, grazioso, che riconobbi solo quando giunse davanti alla mia porta.
Non riesco a ricordare precisamente cosa accadde nei momenti che seguirono. Rammento il volto di Stephanie stravolto dal terrore, Grant chinato su di me, confusi rumori, urla, il lungo scampanellare dalla strada.
Ricordo perfettamente viceversa gli accenti trionfali, quasi gioiosi della Danza della Scimmia nuovamente padrona della mia mente.
Adesso la Scimmia mi lascia qualche momento libero, come avesse compreso che tenendomi il guinzaglio troppo stretto avrebbe finito col soffocarmi.
Il suo modo di palesarsi, viceversa, si è fatto più pervasivo, come se il malefico spartito fosse dotato della capacità diabolica di diffondersi, materializzarsi nel mondo sensibile, colonizzarlo, infettarlo.
Non è raro udire la Danza eseguita da qualche spazzacamino che passa per strada fischiettando, sentirla comparire in un coro di bimbi o distinguerla passando per la via, uscita dalla gola degli avventori ubriachi di un Pub.
Il lettore si chiederà perché non abbia mai accennato a una cadenza, a una descrizione anche semplice ed elementare della Danza. Ma non posso fidarmi neppure di me stesso, né posso rischiare di rendere ancor più virulento il contagio.
La Scimmia occupa interamente il mio tempo e anche nei momenti nei quali apparentemente si acquieta non posso trovare nessuna pace, teso come sono a riconoscere il momento del suo ritorno. Vivo in uno spazio separato, un mondo fatto di ansia e di furore. Nulla può più raggiungermi né io posso più tentare di comunicare con alcuno. Ciò che temo maggiormente è proprio quest’acquiescenza, ormai solo episodicamente colorata d’ira. Sempre più spesso mi trovo a canticchiare o a fischiare la Danza e lascio che il fischio mi muoia sulle labbra senza trattenerlo, con gli occhi sbarrati: come un morto sciocco o un cadavere di cattivo gusto.
Si tratta della mia ultima speranza, balenatami in mente al momento del risveglio. Ho disseppellito lo spartito e, guardandolo solo con la coda dell’occhio, l’ho posto sul leggio del pianoforte. Come ben sapevo il manoscritto poteva essere eseguito anche al contrario. Ho provveduto a trascrivere le chiavi rovesciate del margine destro sul margine sinistro e con esse l’intonazione.
Poso le mani sui tasti, trattenendomi ancora per un attimo, probabilmente il più lungo della mia vita. Ho aperto la finestra perché tutti possano udire. Eseguirò la Danza della Scimmia al contrario, dall’ultima alla prima nota, e sarà forse come se non fosse mai stata suonata. Per pochi attimi tenterò di rovesciare il verso immutabile del Tempo, e come Prometeo, strapperò agli dei il segreto della Vita e della Morte.
Brucerò il frammento di vita che mi rimane per annullare una stupida canzonetta, nient’altro una musica insulsa e invadente.
Perché il diavolo non è grande e maligno - come ci illudiamo noi romantici mortali – bensì sciocco e piccino, un fantasma greve che vive di minute banalità, di frasi smozzicate e di pensieri che non arriva a esprimere. Una larva che si trascina per le vie con la smorfia incerta dell’uomo senza futuro.
La Scimmia ne rappresenta il povero, rudimentale gusto, raffigura alla perfezione le sue velleità confuse, la sua ansia di apparire, il suo agitarsi vano, le sue ire ottuse, il suo livore meschino.
Tengo ancora gli occhi chini sulla tastiera, pronto a cogliere per un’ultima volta il suo richiamo e un istante prima di estrarre dal pianoforte la sua prima nota comprendo che la Scimmia è innocente.
Ella non può vivere senza di noi, né noi senza di lei, e ogni sforzo per cancellarla è vano, forse blasfemo.
Ma è tardi ormai, e con la lentezza del sogno le mie mani, elette a giudice, iniziano a comporre la nostra definitiva condanna all’oblio.




 

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